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La velocità con cui il mondo è riuscito a rispondere alla crisi del Covid-19 sviluppando vaccini è stata sorprendente e ha lasciato stupefatti persino gli esperti. Questa stessa velocità, unita alla scelta di affidarne lo sviluppo ad aziende private, è stata tuttavia anche fonte di critiche, perplessità, resistenze.
Eccoci dunque alle prese con l’ennesima patata bollente: ha senso affidare – e se sì, in che forma e misura? – lo sviluppo di vaccini ad aziende private? Quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi? Ovviamente quasi tutti i riferimenti sono ai vaccini contro Covid-19, ma il senso del discorso è decisamente più ampio.
Altre due premesse, prima di partire. La prima è che, come al solito, proveremo a stare lontani da approcci ideologici e risposte semplici. La seconda è che non parleremo qui dell’efficacia dei vaccini, lo abbiamo già fatto altrove.
VELOCITÀ DI REAZIONE
Uno degli aspetti che più ha colpito è l’incredibile velocità con cui sono stati sviluppati i primi vaccini. In situazioni normali lo sviluppo di un vaccino richiede molto tempo: può andare dai due ai cinque anni e, per arrivare allo sviluppo completo del prodotto, possono passarne anche dieci. Nel caso dell’infezione da SARS-CoV-2 invece sono trascorsi solo pochi mesi dall’insorgere dei primi focolai in Cina alla somministrazione dei primi vaccini. E oggi, nel marzo 2022, a poco più di due anni dall’inizio della pandemia, sono state consegnate nel mondo 11,1 miliardi di dosi.
Un tempo di reazione strabiliante soprattutto considerando che, all’emergere dei primi casi, del nuovo virus non sapevamo praticamente niente. L’urgenza di creare un vaccino ha portato a comprimere i programmi e abbreviare la tempistica standard combinando le fasi della sperimentazione clinica nell’arco di mesi.
La domanda da porci in questo contesto è: affidare lo sviluppo dei vaccini ad aziende private ha reso questo processo più veloce? In realtà, i fatti non sembrano confermare questa ipotesi. I primi tre vaccini approvati al mondo, sebbene per usi limitati o emergenziali, sono stati i cinesi CanSino (giugno 2020) e SinoPharm (luglio 2020) e il russo Sputnik V (agosto 2020): il primo è realizzato da un’azienda privata a partecipazione statale, il secondo da un’impresa statale e il terzo da un’organizzazione governativa.
Perché anche il mondo occidentale producesse un vaccino in grado di arrivare all’approvazione, dobbiamo attendere il 2 dicembre 2020, quando l’Agenzia di regolamentazione dei medicinali e dei prodotti sanitari (MHRA) del Regno Unito ha approvato l’uso temporaneo per il vaccino Comirnaty, frutto di una partnership fra due aziende private, la statunitense Pfizer e la tedesca BioNTech.
Caso intrigante poi è quello di Cuba. Un paese di soli 11 milioni di abitanti, dall’economia affossata dall’embargo e dalle sanzioni statunitensi, dal sistema sanitario pubblico pieno di paradossi (ha medici preparatissimi, ma manca spesso persino il gesso per ricomporre le fratture), è riuscito a produrre un vaccino – anzi, due – in tempi comunque molto rapidi. Nella primavera del 2021, riporta il Guardian, l’isola è diventata il paese più piccolo al mondo ad avere un vaccino contro il coronavirus e oggi è fra i paesi con il più alto tasso di vaccinazione, sebbene non esista alcun obbligo.
Insomma, non sembrano esserci particolari vantaggi per quanto riguarda la velocità di realizzazione dei vaccini nell’affidare questi ultimi ad aziende private. Così come, dati alla mano, non sembrano emergere particolari differenze nell’efficacia degli stessi.
CONTROLLI E TRASPARENZA SUI DATI
Veniamo a uno degli aspetti più delicati. I trial clinici per l’autorizzazione dei vaccini sono stati spesso oggetto di polemiche e la loro attendibilità è stata messa in discussione per via dei tempi molto rapidi con cui sono stati condotti e di alcuni vizi di forma che continuano a emergere a distanza di mesi.
In questo le aziende private non si sono certo distinte per la trasparenza e l’efficienza. Lo scandalo più conosciuto è quello noto come Pfizer Gate, in cui Brook Jackson, un ex dipendente di Ventavia, un laboratorio che ha svolto alcuni test sull’efficacia dei vaccini Pfizer-Biontech (Pfizer, come molte aziende, affida ad aziende esterne la realizzazione dei trial clinici), ha denunciato al British Medical Journal una serie di grossolani errori nella sperimentazione. Non è chiaro se e quanto questi errori possano aver influito sull’attendibilità finale dei test clinici, ma di certo non hanno contribuito a creare un’immagine affidabile del processo di sperimentazione dei vaccini.
Peraltro, le case farmaceutiche non sono nuove a scandali. Tipo quello degli antidolorifici a base di oppio negli USA che ha coinvolto Johnson & Johnson o la frode sull’approvazione e l’uso di alcuni farmaci che nel 2009 è valsa alla stessa Pfizer una multa da 2,3 miliardi di dollari, la più alta di sempre fatta pagare dal Dipartimento della Giustizia USA. Inoltre, i contratti che le aziende siglano con gli stati sono quasi sempre soggetti a clausole di riservatezza, aspetto che di certo non stimola un clima di fiducia. Ciò riguarda non solo i vaccini ma più in generale i contratti che gli stati siglano con le case farmaceutiche e altre aziende private.
Nella puntata di Report Non c’è due senza tre del 1° novembre 2021, vengono indagate le relazioni ambigue fra governi e multinazionali del farmaco. Ad esempio quella fra lo Stato di Israele e Pfizer: in cambio di una fornitura praticamente illimitata di vaccini, il Governo ha trasformato il paese “in una sorta di trial immenso, gigantesco, subappaltato, una sorta di laboratorio distaccato”. Si tratta di uno scambio: “Il Governo cede a Pfizer i dati della vaccinazione dei suoi cittadini, in risposta avrà tutte le fiale di cui ha bisogno. L’accordo segreto è custodito negli uffici del ministero della Salute”.
Insomma, affidare lo sviluppo dei vaccini a aziende private non sembra sinonimo di trasparenza e affidabilità. Ma la cosa migliorerebbe se ci rivolgessimo al settore pubblico? I casi di vaccini pubblici contro Covid-19 non sembrano in realtà avallare questa ipotesi. Riporta Stat Mag che le case farmaceutiche cinesi e le autorità sanitarie governative hanno reso pubblici pochi dettagli sui problemi di sicurezza legate ai vaccini prodotti in casa. Anche il russo Sputnik V è stato a lungo criticato per non aver reso pubblici i dati da cui il team ha tratto le conclusioni degli studi clinici e per il protocollo dello studio, rendendo di fatto impossibile ogni processo di revisione dei risultati ottenuti.
Va detto che tanto la Cina quanto la Russia sono Stati con sistemi di governance poco democratici e non troppo avvezzi alla trasparenza. Possiamo ipotizzare che nelle democrazie occidentali le cose sarebbero andate diversamente? Forse. Anche se va notato che i pochi vaccini pubblici per Covid-19 sono stati prodotti proprio in paesi non democratici o scarsamente democratici, mentre le democrazie hanno preferito affidarli alle aziende private. Questo non è un caso: non mancano, anche nelle democrazie occidentali, scandali legati alla sanità pubblica (si pensi, ad esempio, al caso delle trasfusioni di sangue infetto in Italia).
FINANZIAMENTI E RICERCA
Chi paga per lo sviluppo dei vaccini? Chi ne intasca i profitti? E in che modo il modello economico che sorregge la produzione dei vaccini influisce sulla loro accessibilità e distribuzione? Quello dei vaccini nel biennio 2020-2021 è stato “il più grande investimento pubblico sul breve periodo nella storia della ricerca biomedica”, secondo Massimo Florio, professore di economia pubblica all’Università degli Studi di Milano, intervistato da Le Scienze. Tanto gli stati quanto gli organismi sovranazionali, come l’Unione europea, hanno riversato miliardi di euro/dollari di contributi pubblici nella ricerca e sviluppo di vaccini, ma i profitti sono quasi sempre andati nelle tasche delle aziende private.
Di quanti soldi stiamo parlando? Difficile a dirsi esattamente, dato che alcuni paesi non hanno reso pubblici questi dati e spesso i finanziamenti passano attraverso varie organizzazioni prima di giungere a destinazione rendendo arduo un calcolo preciso. Negli Stati Uniti, secondo Bloomberg, il budget complessivo per sviluppo, produzione e distribuzione di vaccini, farmaci e test diagnostici è stato di 18 miliardi di dollari, di cui 12 dedicati esclusivamente ai vaccini.
In Germania, a quanto riporta l’istituto di Ginevra, BioNTech avrebbe ricevuto 434 milioni di dollari dal proprio Governo e 115 dall’Unione europea per lo sviluppo finale del vaccino. Curevac ne avrebbe ricevuti 639, di milioni, sempre dal governo tedesco, più 15,3 dall’Unione europea. E AstraZeneca? Secondo uno studio pubblicato su BMJ Global Health la ricerca alla base del vaccino Oxford-AstraZeneca è stata finanziata fra il 97% e il 99% da soldi pubblici.
Insomma, sembra proprio che anche laddove i vaccini sono stati brevettati da aziende private, siano gli Stati a coprire la stragrande maggioranza delle spese. E non si tratta solo di coperture economiche. La stessa ricerca che ha portato allo sviluppo dei vaccini avviene in gran parte all’interno di laboratori universitari pubblici. Restando sull’esempio di AstraZeneca, il vaccino si basa su due decenni di ricerca e sviluppo nella tecnologia dei vaccini a vettore adenovirale dell’Università di Oxford.
Anche la ricerca e lo sviluppo dei vaccini a Rna messaggero (Moderna, Pfizer-BioNTech) si è svolta perlopiù all’interno dei laboratori delle università statunitensi, grazie ai contributi dei National Institutes of Health statunitensi, un’agenzia pubblica che ha finanziato decenni di ricerca in questo campo. A fronte di questo enorme sforzo economico, gli Stati non solo non hanno ottenuto vaccini liberi da proprietà intellettuale e brevetti, ma hanno siglato contratti con le stesse aziende a cui si impegnano a comprare milioni di dosi a un prezzo molto superiore a quello di produzione.
Secondo un report di Oxfam ed Emergency, gli Stati ricchi hanno pagato i vaccini fino a 24 volte il loro costo stimato di produzione. Inoltre, i contratti stipulati dall’Unione europea con le case farmaceutiche, tenuti inizialmente segreti e poi svelati da una puntata di Report, mostrano in caso di danni da effetti collaterali gli indennizzi ricadono quasi esclusivamente sugli Stati e anche in casi di ritardi nelle consegne vengono principalmente tutelate le case farmaceutiche.
PROFITTI
Questa improvvisa valanga di finanziamenti e contratti ha reso di colpo quello dei vaccini un business incredibilmente profittevole. Come spiega Valori, e a differenza di quello che si ritiene comunemente, le Big pharma non amano particolarmente investire nel settore dei vaccini, prediligendo di gran lunga quello dei medicinali. Infatti è molto più profittevole vendere un farmaco in maniera ripetuta che somministrare un vaccino una tantum o un numero molto limitato di volte.
Secondo il celebre studio degli economisti americani Michael Kramer e Christopher Snyder, ciò si riflette in un cronico sotto-investimento da parte dell’industria farmaceutica nella ricerca sui vaccini e nella prassi di “appaltare” quel ramo della ricerca ad aziende biotech più giovani e meno strutturate, come Moderna e BioNTech, che allo scoppio della pandemia avevano poco più di un migliaio di dipendenti ciascuna.
Questo panorama è stato completamente stravolto dal Covid, che ha reso di colpo l’industria dei vaccini la più profittevole in assoluto. Secondo un recente report del Centro nuovo modello di sviluppo, nel 2021 la sola vendita di vaccini ha rappresentato il 50% dei ricavi dell’intero settore farmaceutico, mentre fino al 2019 arrivava a stento al 15%. Il fatturato di Moderna è cresciuto dell’8.300% e i suoi profitti sono passati da un negativo di 240 milioni di dollari dei primi sei mesi del 2020 ai quattro miliardi registrati a giugno 2021, solo per fare un esempio.
Colti colpevolmente alla sprovvista, gli Stati occidentali, e non solo, hanno affidato alle aziende private l’incarico esclusivo di trovare la soluzione alla pandemia, mettendosi in una posizione di totale subalternità e dando loro un enorme potere contrattuale e persino – in alcuni casi – di gestione dell’emergenza.
LOGICHE (IN PARTE) DIVERSE
Il problema di affidare ampio potere nella gestione della pandemia a una manciata di aziende private non è solo di carattere etico. Certo, fare profitti record grazie a una pandemia mondiale non farebbe fare salti di gioia a Immanuel Kant, ma una gestione privata dei vaccini comporta anche problematiche molto pratiche. La prima, come abbiamo visto, è il costo: i vaccini prodotti dai privati finiscono per costare ai contribuenti cifre esorbitanti, se si considera sia l’investimento in ricerca che quello per acquistare le dosi a un costo fino a decine di volte superiore a quello di produzione.
La seconda è l’equità dell’accesso alle cure. Le aziende tenderanno a vendere più dosi possibili, spesso anche più di quelle necessarie, a chi può pagarle profumatamente e a non venderle a chi invece non ha abbastanza soldi per comprarle. Ciò comporta alcuni paradossi, tipo quello degli abitanti di Israele che ricevevano la terza dose di vaccino mentre fra i vicini palestinesi solo il 40% della popolazione ne aveva ricevuta una. O degli Stati africani, che hanno ricevuto pochissime dosi di vaccini e in netto ritardo rispetto al resto del mondo.
La terza, che a ben vedere fa da ombrello all’intero ragionamento, è la logica sottostante. Le aziende quotate in borsa – come lo sono la maggior parte delle case farmaceutiche – sono obbligate a perseguire come fine ultimo la massimizzazione dei profitti. Il che non sempre – a dire il vero quasi mai – va a braccetto con la tutela dell’interesse pubblico. Detto in altri termini, le aziende farmaceutiche e le biotech devono vendere vaccini e fare più soldi possibili, non tutelare la salute globale. E questo è un problema.
Ora, chiediamoci di nuovo: se fossero gli Stati a produrre i vaccini, cosa cambierebbe? Sicuramente il costo sarebbe minore. Ci sarebbe stata una distribuzione più equa? Difficile a dirsi; probabilmente in assenza di convenzioni e regolamenti internazionali non sarebbe cambiato molto: a parte Cuba, il cui vaccino è l’unico ad avere un brevetto 100% pubblico, gli altri vaccini pubblici sono stati utilizzati a uso prioritario (o esclusivo) dai paesi che li hanno sviluppati e le eccedenze sono state vendute a paesi terzi a prezzi di mercato.
Che dire infine della logica sottostante? Gli Stati, a differenza delle aziende, non perseguono il profitto come scopo principale e possono attuare politiche di spesa pubblica: il che significa, ad esempio, che non devono convincere nessuno ad acquistare il proprio prodotto oltre le quantità necessarie. Ma nemmeno gli Stati, per come sono strutturati, perseguono come obiettivo il bene comune o la salute pubblica. Seguono sì logiche diverse dalle aziende, ma sono perlopiù logiche geopolitiche ed elettorali.
CONCLUSIONI
In conclusione, sembra che affidare lo sviluppo esclusivo dei vaccini a delle aziende private presenti più svantaggi che vantaggi, soprattutto alle condizioni in cui lo hanno fatto la maggior parte dei paesi durante l’epidemia di Covid. Tuttavia anche la gestione diretta da parte del settore pubblico non pare una soluzione del tutto soddisfacente e non è esente problematiche come scarsa trasparenza sui dati e utilizzo strumentale dei vaccini per scopi geopolitici o elettorali. Inoltre non risolve il problema della disparità nella capacità di accesso ai vaccini da parte dei diversi paesi del mondo e non è tesa al bene comune.
Che alternative abbiamo? A lungo si è parlato dell’ipotesi di togliere la proprietà intellettuale sui vaccini per il Covid, in modo da renderli più accessibili a chiunque fosse in grado di produrli. Nell’ottobre 2020 India e Sudafrica, con il sostegno di oltre cento nazioni, hanno lanciato la proposta di una moratoria globale di tre anni sui brevetti sui vaccini. Al grido di “Nessun profitto sulla pandemia” molte Ong e associazioni hanno aderito. Risultato? Un buco nell’acqua.
Ad oggi (marzo 2022) i paesi del mondo non sono ancora giunti a un accordo e si continua a discutere su quale sia il miglior compromesso fra le esigenze delle diverse nazioni, depotenziando negoziato dopo negoziato la proposta originale. Anzi, sembra che molti paesi stiano prolungando oltre la loro scadenza alcuni brevetti necessari alla produzione dei vaccini. Nel marzo 2021 l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM), che dipende dal ministero dello Sviluppo Economico, ha prolungato il brevetto Curevac, che riguarda la metodica MRNA e che coinvolge Pfizer e Moderna. Sarebbe scaduto nel 2022.
Nel valutare il fallimento di iniziative come questa o di quello ancora più eclatante di Covax, dobbiamo prendere atto di una scomoda verità: in molti paesi capitalisti il settore pubblico e quello privato sono legati assieme in maniera sottile e profonda da interessi, commistioni, sistemi di lobbying, al punto che i governi rispondono più prontamente ai bisogni delle grandi aziende che a quelli dei propri elettori.
In quest’ottica la distinzione fra pubblico e privato assume contorni più sfumati. Difficile oggi pensare che l’alternativa auspicabile a una gestione della pandemia affidata in larga parte alle multinazionali del farmaco sia una gestione completamente statalizzata. Piuttosto, sembra utile uscire dalla dicotomia, spesso molto ideologica, fra pubblico-privato e iniziare a chiederci non solo e non tanto “chi” debba gestire una pandemia o una crisi, ma “come” e con quali strumenti e modelli di governance.
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