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Persa nel frastuono delle bombe che piovono sulle città ucraine, è passata quasi inosservata la notizia che l’Unione Europea potrebbe rivedere, in via emergenziale, i propri regolamenti e iniziare a importare cibo – forse geneticamente modificato – da Stati Uniti, Canada e Argentina, come abbiamo accennato nella rassegna stampa di qualche giorno fa.
Lo ha affermato, tra le righe, il premier italiano Mario Draghi in conferenza stampa a Versailles dopo il summit d’emergenza dell’Unione europea. Ecco cosa ha detto: «Nel corso del vertice di Versailles la discussione ha toccato le insufficienze di materie prime, tra cui l’agro-alimentare. La risposta è che, se ciò si aggraverà, occorrerà importare da altri Paesi come Usa, Canada o Argentina. Ciò determina una necessità di riconsiderare tutto l’apparato regolatorio e questo argomento lo ritroviamo sugli aiuti di Stato, sul Patto di Stabilità. C’è la convinzione che la Commissione debba rivisitare temporaneamente le regole che ci hanno accompagnato in questi anni».
Lo spettro di una drammatica crisi alimentare, figlia della scarsa resilienza dei nostri sistemi, rischia di spazzare via decenni di politiche protettive e aprire le porte a prodotti di ogni tipo
Poche frasi, passate sotto traccia sui media nostrani, che si sono concentrati esclusivamente sulle questioni energetiche ma che possono sottintendere molte cose. I tre Paesi nominati, ad esempio, sono tra i principali produttori di organismi geneticamente modificati del mondo. OGM che invece sono rigidamente normati in Europa: i paesi membri non possono coltivarli, con rare eccezioni, e anche fra le importazioni sono poche quelle autorizzate (soia, alcuni tipi di mais, colza, poco altro).
Molto diversa la situazione oltreoceano, dove la produzione e il consumo di colture frutto di ingegneria genetica sono ormai parte integrante della dieta umana e degli animali d’allevamento. E non si tratta solo di OGM. Europa e America hanno politiche diverse anche sull’utilizzo degli antibiotici negli allevamenti e in generale nell’applicare il principio di precauzione: mentre nei confini Ue non si può commercializzare qualcosa se non si è ragionevolmente certi che non sia dannosa, negli Stati Uniti vale il principio è opposto: si può commerciare tutto a patto che non si dimostri essere nocivo.
I problemi di sicurezza alimentare e le differenze fra il mercato della produzione di cibo dei due continenti sono stati anche una delle principali ragioni del fallimento del Ttip, il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti che avrebbe dovuto liberalizzare gli scambi tra USA e Unioe Europea, ma che sì arenato nel 2016.
Ora, lo spettro di una drammatica crisi alimentare, figlia della scarsa resilienza dei nostri sistemi, rischia di spazzare via decenni di politiche protettive e aprire le porte a prodotti di ogni tipo. “Temporaneamente”, assicura Draghi in conferenza. Ma è difficile ricostruire una diga, una volta liberato il flusso.
E se, come si prova a fare almeno in parte per le rinnovabili, invece di buttarci su soluzioni di ripiego che rischiano di esacerbare i problemi invece di risolverli provassimo ad aumentare la resilienza dei nostri sistemi alimentari e implementare modelli – come le CSA, ovvero i progetti di agricoltura supportata dalla comunità – di autoproduzione alimentare collettiva?
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