Morte e altre amenità filosofiche: perché affrontare domande esistenziali con i bambini?
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Uno dei primi professori che mi è capitato di conoscere in università ci ha proposto una metafora che continua a ronzarmi in mente: le domande filosofiche sono come una crosta sul ginocchio, una di quelle croste che ci siamo fatti tutti da bambini scivolando sull’asfalto. Tutti sanno che è meglio lasciare in pace la crosta, ma la tentazione di alzarla, pezzettino per pezzettino, è assolutamente irresistibile. Il processo risulta poi doloroso e inutile, se non controproducente, tant’è: tutti noi abbiamo, presto o tardi, sollevato almeno una piccola crosticina.
Le domande su cui vorrei riflettere oggi sono “crosticine” particolarmente dolorose da sollevare. Nonostante il dolore che le accompagna, sono le domande che più amo proporre alle persone con cui dialogo e che, presto o tardi, hanno riguardato tutti noi, anche te, che spendi oggi qualche minuto del tuo tempo a leggere questo breve articolo. Esse suonano un po’ così: “Perché le persone che amo devono morire?”, “che senso ha impegnarsi nei miei progetti, studiare, lavorare, se so che un giorno dovrò morire?”, “e se poi morendo dovessi dimenticare tutto, che senso avrebbe avuto vivere?”.
Almeno una di queste domande dovrebbe risultarti profondamente dolorosa. Si tratta infatti di una selezione di domande esistenziali. Queste domande riguardano il significato più profondo della nostra vita e, proprio per l’oggetto di cui chiedono, sono tipicamente vissute come domande sconvolgenti dal punto di vista emotivo.
Ora forse non ti definiresti sconvolto, ma prova a pensarci davvero. Siediti comodo, chiudi gli occhi e concentrati su questo pensiero: io devo morire, io con tutta la mia storia, le mie emozioni, le mie piccole preoccupazioni, sono certamente e indubitabilmente destinato alla morte. In un certo senso: io sto morendo, proprio ora, mentre leggo queste poche righe.
Se riesci a concentrarti su questo pensiero, sentirai emergere in te una serie di emozioni che faremmo fatica a definire positive. La consapevolezza della nostra finitudine ci accompagna infatti in un luogo tremendamente inquietante: il luogo dove la nostra vita smette di avere senso. Qualsiasi risposta formuliamo ci lascia insoddisfatti e ci pare anzi che la vita ci abbia fatto un torto inaudito: sapere di dover morire.
Quando racconto del mio lavoro come collaboratrice di Filò e dico che chiedo ai bambini, agli adolescenti e agli adulti “perché dobbiamo morire?”, le persone reagiscono con una gravissima espressione di dissenso: ma perché parlare di queste cose ai bambini? Non hai paura di “romperli”? Non hai paura di farli soffrire? E se qualcuno di loro ha subito una perdita?
Il dialogo filosofico non ha come scopo la produzione di una risposta, esso è invece il momento in cui si tende insieme verso la risposta
La risposta, banalmente, è: sì, ho paura. Ho paura dei luoghi in cui la filosofia porta, ho paura di guardare nell’abisso del non-senso che apre la morte. Ho una paura tremenda. Come tutti, come i bimbi e come gli adulti con cui dialogo. Qualche anno di filosofia sulle spalle non migliora la sensazione di spaesamento che tutti gli esseri umani provano davanti alla morte. E allora emerge imperativamente un’altra domanda: perché fare queste domande?
La prima risposta suona banale: la finitudine della nostra vita è una verità assolutamente indubitabile. È una verità brutta come uno scarafaggio, ma è una verità. Immaginate di sapere senza ombra di dubbio di avere uno scarafaggio in casa: preferireste sapere dove si trova e come è fatto o continuare a coricarvi ogni notte, come se niente fosse, con la certezza che c’è?
Certo, possiamo fare finta che non esistano né siano mai esistiti scarafaggi e che non ce ne sia uno in casa nostra, ma saremo totalmente impreparati quando ce lo troveremo davanti. Non avremo strategie ragionate per affrontarlo. Insomma, sebbene non ci faccia piacere intrattenerci in compagnia degli scarafaggi è sempre meglio vederli piuttosto che non vederli.
La seconda risposta me l’ha suggerita un bimbo di sette anni durante un laboratorio in cui si ragionava su quali strategie mettere in atto per affrontare e gestire la paura. Quando si ha paura, diceva il bimbo, non ci sono molte soluzioni, devi solo trovare qualcuno con cui stare. Il dialogo filosofico non ha come scopo la produzione di una risposta, esso è invece il momento in cui si tende insieme verso la risposta. La risposta è la parte meno interessante del processo perché “l’avvicinarsi dei due messaggeri è in sé il messaggio”.
Più che di rispondere si tratta di co-rispondere: di fare un esercizio di cooperazione o sintonizzazione, di stare con l’altro in un luogo ostile e vibrante di significato. Significa insomma recarsi insieme nel luogo dello spaesamento. È questa dimensione di condivisione a risultare fondamentale: appunto perché queste domande muovono emozioni profonde esse devono essere condivise, con tutta la cautela e il tatto di cui siamo capaci. L’alternativa è che ognuno di noi viva in solitaria la tensione della domanda e la paura di una risposta insoddisfacente.
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