“Di scuola non si muore!”: ecco cosa ci raccontano le proteste degli studenti di Torino
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Torino - Questa mattina Torino si è svegliata nella nebbia. Nulla di strano, specialmente in questo periodo dell’anno, ma ciò che rende particolare questa giornata è l’aria che si respira. Oggi l’aria di Torino è percorsa dalle voci di studenti e studentesse che si sono radunati per protestare contro una scuola che non sembra più rappresentarli. Abbiamo deciso di partecipare alla manifestazione per capire, ascoltare e raccogliere le loro testimonianze.
Intorno a me gli striscioni e i cartelli ci mostrano i mille volti di una scuola che appare sempre più lontana all’orizzonte. E non vedo traccia di quegli studenti tanto deprecati da molti come disinteressati, annoiati e fannulloni. Intorno a me vedo giovani ragazzi e ragazze che di interesse ne hanno da vendere e che dopo questi due difficili anni di pandemia rivendicano la necessità di essere ascoltati. “La vostra immaturità ci preoccupa” urlano alcune ragazze mentre altri, poco lontano, portano nei loro sguardi quell’unica e ferma convinzione che li ha fatti scendere in strada questa mattina: “riprendiamoci la scuola che ci spetta”, proprio come riportato dalle scritte sui loro striscioni.
Quale scuola spetta loro? Le richieste che gli studenti hanno portato in piazza questa mattina sono molteplici: una scuola capace di ripensare strutturalmente il sistema scolastico e in particolar modo dopo questi due anni di pandemia, di essere ascoltati riguardo alle recenti decisioni sulla maturità e una maggior tutela della salute in riferimento alla morte di due studenti durante l’alternanza scuola-lavoro.
DALLE OCCUPAZIONI AGLI SCIOPERI
La manifestazione di oggi è soltanto la più recente di una serie di iniziative che da tre settimane hanno portato gli studenti di una quarantina di istituti della città a occupare le proprie scuole. Alcune tra queste sono gli istituti Einstein, Albe Steiner, Regina Margherita, Primo Liceo Artistico, Gioberti, Alfieri, d’Azeglio e Passoni ma non mancano anche quelle della cintura come Majorana di Grugliasco, Monti di Chieri, Marie-Curie di Pinerolo o Natta di Rivoli.
In mezzo alla folla parlo con Luisa Pellegrino, insegnante di inglese all’Albe Steiner. Come mi spiega, «in occasione dell’occupazione, che è durata quattro giorni e che ha anticipato la manifestazione, gli studenti hanno organizzato laboratori autogestiti su tematiche che hanno a cuore, dalla sessualità alla digitalizzazione alle questioni di attualità come la tav. Molti professori hanno supportato questa iniziativa e la Preside li ha ascoltati. Penso che sia molto importante prendere i ragazzi sul serio. I giovani sono spesso tacciati dall’opinione pubblica e considerati inerti e disinteressati, invece le cose non sono così o quando lo sono è perché sono nient’altro che un riflesso della nostra società».
QUELL’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO
Una recente manifestazione che a Torino ha suscitato diverse polemiche è quella del 28 gennaio. Polemiche per via delle tensioni e del tentativo di repressione delle forze dell’ordine contro gli studenti che protestavano a seguito della morte del giovane Lorenzo Parelli. Proprio quel Lorenzo al centro del recente dibattito, lo studente diciottenne vittima di un incidente presso lo stabilimento dove stava svolgendo lo stage durante l’alternanza scuola-lavoro.
Anche oggi il nome di Lorenzo ha risuonato tra le voci in piazza e insieme al nome di Giuseppe Lenoci, giovane studente di sedici anni che durante il tragitto per recarsi in un’azienda termoidraulica dove svolgeva il suo stage è rimasto vittima di un incidente stradale. Oggi, intorno a me, la rabbia per queste vicende è tanta. “Di scuola-lavoro non si può morire” riportano alcuni cartelli, perché le tristi storie di Giuseppe e Lorenzo non possono e non vogliono essere dimenticate.
È necessario sia garantita la sicurezza sul lavoro perché quella dell’alternanza scuola-lavoro può anche essere una buona idea ma deve essere fatta in modo che sia tanto utile quanto sicura per gli studenti
Sono queste le parole di Ilaria Bellettati, rappresentante di istituto al Blaise Pascal di Giaveno ho incontrato alla manifestazione insieme i suoi compagni.
LA CRITICA ALL’EDILIZIA SCOLASTICA
Tra i cartelloni ce n’è uno in particolare che mi colpisce. Riporta questa frase: “Muri che tremano, tetti che cadono, gli studenti rischiano, i genitori pagano”. Tra le critiche degli studenti non mancano infatti quelle relative ai problemi legati all’edilizia e alla sicurezza degli edifici.
Come aggiunge Ilaria, «oggi siamo scesi in piazza per molti motivi diversi. Noi crediamo che il problema della scuola non sia solo il problema del Pcto (ex alternanza scuola-lavoro) o la maturità, ma ci sono altri problemi da risolvere: cito ad esempio i problemi legati alle infrastrutture come i tetti delle scuole che non sono sicuri, l’acqua che cade dai soffitti, gli impianti di riscaldamento che non funzionano. Questi sono i soliti problemi che ritornano sempre e ci siamo stufati di parlare al vento e non essere mai ascoltati».
I DUE ANNI DI PANDEMIA E LA DIDATTICA A DISTANZA
Dietro a questa manifestazione emerge poi un malessere generazionale più ampio. È, per fare un esempio fra tanti, quel malessere inflitto ai più durante gli ultimi due anni di pandemia. Su questo tema mi soffermo a parlare con Marco Meotto che all’istituto Giulio Natta di Rivoli è docente di filosofia e storia.
«Gli studenti che tutti i giorni abbiamo in classe hanno vissuto questi due anni di pandemia durante la loro adolescenza come una frattura forte delle loro aspettative relazionali. Per un adolescente questa pandemia ha rappresentato la rottura di relazioni tra pari che nella scuola trovavano il giusto spazio. Così sono aumentate le differenze sociali e ne hanno subito soprattutto coloro che si sono trovati in condizioni socio-familiari di marginalità, molti dei quali in questi due anni hanno iniziato a diventare dipendenti dai dispositivi tecnologico – digitali, e noi docenti in classe lo vediamo. Ora questa frattura non è stata recuperata nemmeno con il ritorno in presenza e quella dimensione meno formale dello stare insieme che apparteneva alla scuola non c’è più».
“STIAMO PERDENDO IL SENSO DELLA NOSTRA PROFESSIONE”: LA TESTIMONIANZA DEGLI INSEGNANTI
Come ha poi aggiunto Marco Meotto, «noi, come parte dei docenti del Natta, abbiamo colto l‘occasione dello sciopero indetto per essere a fianco degli studenti: senza volerli scavalcare, lasciando loro l’autonomia e solidarizzando. Credo che noi insegnanti abbiamo tanti e altrettanti buoni motivi per essere in piazza».
Tra questi, «penso che noi insegnanti, a livello di compiti educativi, stiamo perdendo il senso della nostra professione. Ormai la nostra professione è diventata burocratico – amministrativa: siamo sovraccaricati di funzioni che non sono più quelle di insegnare. E, aggiunge Luisa Pellegrino, «vogliamo rivendicare alcune questioni importanti per i docenti come l’eccessiva burocratizzazione che sta dietro al lavoro di ognuno di noi e che molto spesso sminuisce quello che è il vero contenuto del nostro lavoro ovvero la didattica e la relazione con gli studenti».
STUDENTI E DOCENTI UNITI, UNA SPERANZA PER RIFORMARE IL SISTEMA SCUOLA
Questa non è la prima manifestazione e non sarà neanche l’ultima. I problemi a cui far fronte sono tanti ma gli studenti disposti a combattere perchè credono nel loro futuro ancor più. Prima di lasciare la manifestazione il professore Marco Meotto condivide un’ultima e importante riflessione.
«La scuola serve a una cosa sola, ovvero fare in modo che i cittadini di domani abbiano gli strumenti per capire il mondo e per diventare protagonisti attivi per trasformare questa società. Invece questa scuola finisce per voler replicare l’esistente e noi non ci stiamo. Siamo qui e speriamo che anche altri docenti sappiano mobilitarsi proprio come tutti questi studenti. Per farlo dobbiamo sentire il grido che arriva e declinarlo anche per la nostra condizione di cittadini, insegnanti, lavoratori e lavoratrici».
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