25 Feb 2022

Nomadismo digitale: ecco cos’è e perché può essere una risorsa per i piccoli paesi del Sud Italia

Scritto da: Guerino Nisticò

Il nomadismo digitale è una pratica sempre più diffusa, che la pandemia ha ulteriormente incoraggiato nelle sue varie forme, spesso intrecciando percorsi di innovazione sociale e rigenerazione urbana. Proviamo ad approfondire questa pratica, sfatando alcuni pregiudizi e analizzando i benefici che può portare, in particolare in alcune aree del Mezzogiorno interessate al fenomeno del "south working".

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Il “nomadismo digitale” è ormai un fenomeno diffuso a livello mondiale, esistente prima della pandemia, ma ora esploso anche nel Sud Italia, soprattutto durante questi ultimi due anni di emergenza Covid-19. Non vi è una definizione da manuale per classificarlo, ma si può dire che chi sceglie di essere un “nomade digitale” ha a cuore la propria libertà. Libertà di scelta nel vivere la propria vita ed il proprio lavoro, cambiando a volte radicalmente anche stile di vita e di consumi.

Il nomade digitale è colui che sfrutta al meglio le nuove tecnologie e il mondo di Internet affinché il lavoro segua la persona ovunque essa si trovi. Cambia così anche il concetto di lavoro, slegato da una sola città, un solo ufficio o un singolo spazio fisico definito come “posto di lavoro”.

Spesso il nomadismo digitale viene stereotipato come la possibilità di viaggiare lavorando, magari andando alle Maldive e ritrovarsi a lavorare in spiaggia seduti su un’amaca. Certo, i nomadi digitali viaggiano, ma il loro ambiente di lavoro non è mai così scontato come il nostro immaginario ci propone. Pertanto il nomadismo digitale è un movimento di professionisti che fanno della libertà di lavorare, grazie alle tecnologie, in luoghi diversi da quelli a cui siamo abituati, uno stile di vita leggero. Dove lo stress non è contemplato e si può creare con l’ambiente circostante un rapporto diverso, più intimo.

nomadismo digitale

Interessante è anche il fatto che con il nomadismo digitale si va concretamente oltre all’ormai conosciuto “smart working” che, nell’arco del 2020 e del 2021, ha fatto scoprire a molti di noi la possibilità di poter lavorare da remoto e distanti dalla propria postazione di lavoro, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso, con i suoi diritti (diritto alla disconnessione) e doveri (piano di lavoro flessibile per obiettivi e scadenze), con le sue opportunità e prospettive possibili anche rispetto alla potenziale rivitalizzazione e ri-abitazione del Sud Italia.

Proprio in questi ultimi due anni di pandemia in Italia sono nati il movimento South Working – Lavorare da Sud ed una sorta di sindacato Smartworkers Union. Nel 2019 lo Smart Working riguardava circa 570mila lavoratori. Oggi, tra settore pubblico e privato, si parla di 5 milioni di persone.

Con il controesodo registrato durante il primo grande lockdown del 2020 sono stati 100mila i giovani tornati al Sud per lavorare in smart working per le aziende del Nord. Molti lavoratori hanno approfittato della pandemia per tornare nei luoghi d’origine, spesso piccoli centri: sono nati spazi di co-working, hub innovativi – come ad esempio Isola Catania –, progetti di rivitalizzazione di spazi urbani e del patrimonio storico, nuovi sistemi di welfare e collaborazioni tra pubblico e privato.

Inoltre, tante aziende si sono spostate a lavorare da Sud coi propri “south workers” dando una importante spinta alla possibile rivitalizzazione di borghi e piccoli paesi del Mezzogiorno. Svolgere attività lavorative in smart working nei borghi è un’opportunità che va sostenuta e incentivata, logicamente affiancando a tutto ciò (che non è la panacea di tutti i mali), tanto altro che va programmato e realizzato in maniera strutturata e con altri tipi di interventi pubblici, utili a migliorare sempre e continuamente servizi e livello di vivibilità dei territori.

Il nomadismo digitale è un movimento di professionisti che fanno della libertà di lavorare, grazie alle tecnologie, in luoghi diversi da quelli a cui siamo abituati, uno stile di vita leggero

Secondo i dati dell’Osservatorio smart-working del Politecnico di Milano, nel post pandemia continueremo a lavorare da remoto fino a tre giorni alla settimana. Gli smart workers sono (e saranno) più di 5 milioni tra Pubblica Amministrazione e Piccole Medie Imprese. Il direttore scientifico dell’Osservatorio, Mariano Corso, sostiene fortemente che oggi, andando oltre le miopie politiche nazionali, è e resta importante ripensare il lavoro per non disperdere l’esperienza di questi mesi e passare al vero e proprio smart working, seguendo modelli nord-europei o americani dove il lavoro agile è diffuso da molti anni.

Secondo gli ultimi dati Eurostat, la media europea dei lavoratori dipendenti che praticano smart working nel settore privato o pubblico è circa del 12%, (in Olanda, ad esempio, del 15%) contro un misero 3,6% per l’Italia. Ci sarebbe quindi da domandarsi se lo “Smart Working” – e ancor più il “South Working” – avranno vita facile in Italia con un loro futuro possibile. L’emergenza Covid-19 sta giungendo ufficialmente al termine, con una dead-line fissata al 31 marzo 2022, e va sciolto il dubbio se essi siano solo fenomeni “stagionali” destinati a esaurirsi o un nuovo paradigma per ripensare l’organizzazione del lavoro.

Non solo: a questo quesito si aggiungono altre sfide, come fare un uso intelligente della digitalizzazione, legare il tutto a un nuovo ragionamento ecologico e sostenibile, adottare veramente livelli di flessibilità a favore dei lavoratori liberandoli dalle grinfie stressanti del lavoro per avere più tempo libero a godersi la vita, rimettere in moto l’economia di aree del Paese che hanno visto una emorragia di cervelli per l’assenza di grandi industrie e terziario.

badolato nomadismo digitale

Secondo il sociologo e docente universitario De Masi, non c’è ragione perché venga stravolto quanto accaduto in questi due anni: «Le ricerche effettuate in tutto il mondo dimostrano che, lavorando in smart working, la produttività aumenta del 15-20%. Dunque non c’è nessun bisogno che i giovani meridionali tornino al Nord. Possono lavorare tranquillamente nei loro paesi di origine, con grande vantaggio sia per sé stessi, sia delle aziende settentrionali dalle quali continueranno a dipendere, sia dell’intero Mezzogiorno d’Italia».

Da queste nuove visioni e prospettive è nato negli ultimi mesi anche un disegno di legge, ora fermo in Senato della Repubblica, che intende ridare vita ai piccoli centri d’Italia. La proposta di disegno di legge propone di regolamentare lo smart working nei borghi, poiché inteso come uno di quei possibili strumenti e occasioni per l’Italia di innescare una vera e propria rinascita del territorio, lagata anche al nomadismo digitale. Se si pensa che nel solo 2020, complice la pandemia e le restrizioni conseguenti, 6,58 milioni dei lavoratori dipendenti italiani hanno svolto lavoro agile, si può comprendere quali opportunità si possano attuare nei piccoli centri italiani.

Tuttavia, occorre creare condizioni adatte perché si possa pensare a incentivare il passaggio stabile dalla città alle piccole realtà. Per questi motivi l’Associazione I Borghi più Belli d’Italia, insieme ad altre soggettività nazionali, ha promosso una proposta di legge ad hoc intitolata “Delega al Governo per la promozione del lavoro agile nei piccoli comuni”. I suoi obiettivi sono quattro: ripopolare i borghi italiani; creare le basi per una nuova e più versatile definizione di smart working; garantire i servizi essenziali in grado di incentivare la migrazione verso i piccoli Comuni; valorizzare il territorio e le attività locali e artigianali.

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