Marco, guida ambientale: “No al lockdown dei boschi, servono norme più ponderate e meno liberticide”
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Genova - Da un mese i boschi e le aree montane tra Liguria e Piemonte sono in lockdown, blindati con l’intento di contenere il dilagarsi di peste africana. Anzi, “semi-blindati”, perché il presidente della regione Giovanni Toti ha escluso dall’ordinanza le strade asfaltate in zona rossa, per consentire di raggiungere terreni agricoli, luoghi di lavoro e abitazioni. Nel frattempo sono diventate ventinove le carcasse di cinghiali positive ritrovate nell’area rossa, quattordici in Piemonte e quindici in Liguria.
Quali sono però gli effetti di questo lockdown dei boschi (di cui avevamo parlato qui) sugli operatori del settore outdoor? Ne abbiamo discusso con un naturalista, fotografo e guida escursionistica ambientale di Genova, Marco Bertolini, che ci ha raccontato tutte le perplessità per il suo lavoro.
L’ordinanza del lockdown boschivo va indubbiamente a colpire la libertà personale del cittadino e sta portando a un effettivo blocco di alcune categorie di professionisti operanti nel comparto outdoor dell’area geografica coinvolta: come guida, cosa stai riscontrando in questo primo mese di chiusura?
Nonostante il periodo di bassa stagione, moltissime realtà del settore hanno perso la totalità delle prenotazioni delle attività programmate. Personalmente ho dovuto annullare tutti i miei trekking nel parco del Beigua e anche altri eventi personali organizzati nella zona del lockdown. Il maggiore problema è la grande incertezza della situazione: una guida può spostare le proprie attività al di fuori della zona infetta, questo però comporta un investimento di tempo e denaro per la nuova programmazione, con il rischio di incappare comunque in un ulteriore allargamento dell’area zona interdetta.
Al netto del grande disagio per il vostro settore, pensi che questa misura sia poco efficace ai fini del contenimento della malattia?
Dovrebbe rispondere la scienza su questo virus: le pubblicazioni in merito però sono tante e in questo senso la chiusura dei boschi è una decisione che, dal mio punto di vista, non sta in piedi. Se si analizzano nel profondo sia le cause della peste suina che la gestione delle sue conseguenze emergono tanti punti oscuri. E poi il vero problema, a monte di tutto, è l’allevamento intensivo. Non è stato fatto nulla per prevenire la diffusione di questo virus e ora si va a penalizzare tutto l’outdoor, il cui fatturato è sicuramente inferiore rispetto all’allevamento intensivo, nonostante tutti i problemi che questo tipo di industria comporta.
Mi aspetterei delle norme più ponderate e meno liberticide e mi piacerebbe che la stessa attenzione che è stata rivolta agli allevatori venisse indirizzata anche verso di noi, professionisti del settore turistico ambientale
Penso, per esempio, oltre all’etica e al benessere animale, allo sfruttamento e alla distruzione di foreste per la coltivazione di foraggio. Chiudendo tutto si è optato per salvare economicamente un settore privato, dimenticando totalmente altri ambiti di attività legati allo sport e alla ricezione turistica delle aree interne. Il punto è che dovremmo fermarci a riflettere e cambiare davvero il nostro modo di vivere. Non è più sostenibile concepire così la nostra presenza su questo pianeta. Continuare imperterriti su questa linea porterà a seri problemi sulla nostra specie. Quello che vedo al momento è poca lungimiranza.
Quali altre soluzioni vedresti, in alternativa al lockdown dei boschi?
Se penso ai grandi allevamenti nelle regioni limitrofe alla Liguria, quelli della Lombardia e dell’Emilia, mi chiedo: staranno aumentando i propri livelli di biosicurezza interni? Credo che con delle misure più puntuali si potrebbe affrontare la questione con un po’ più di raziocinio. Secondo la norma europea poi non occorre chiudere una zona così ampia, ma basta creare un’area cuscinetto di 6 chilometri intorno al punto in cui sono stati ritrovati gli animali infetti. Mi aspetterei delle norme più ponderate e meno liberticide e mi piacerebbe che la stessa attenzione che è stata rivolta agli allevatori venisse indirizzata anche verso di noi, professionisti del settore turistico ambientale, dalle guide ai titolari di strutture ricettive dell’entroterra.
Con questo lockdown il vostro settore è stato colpito proprio ora che iniziava, poco a poco, a ritrovare un pochino di ossigeno.
Sì, come guide abbiamo dovuto affrontare diverse alluvioni, che in questi anni sono diventate sempre più frequenti per vari motivi. La Liguria è un territorio estremamente fragile e proprio a seguito di questo abbiamo già avuto tantissime perdite: mi riferisco al dissesto idrogeologico e alle frane che ha causato, con la chiusura delle strade, per esempio. Per non parlare dei due anni di Covid.
Le numerose associazioni di categoria del territorio coinvolto stanno esprimendo la propria preoccupazione: in che modo vi state muovendo?
Per ora con comunicati stampa e richieste di chiarimento indirizzate al Ministero e alla Regione. Come AGAEL – Associazione Guide Ambientali Escursionistiche Liguri, in un comunicato congiunto con AIGAE – Associazione Italiana Guide Ambientali Escursionistiche, abbiamo avanzato una richiesta di soluzione rapida per quanto riguarda il nostro settore.
Oggi, in qualità di guida, quali soluzioni vedi per il turismo lento in Liguria?
Il problema della peste suina africana è estremamente complesso e va affrontato in tutte le sue componenti. Una cosa è certa: dopo due anni di pandemia, che ha portato gravi danni al settore turistico dell’entroterra ligure, non si possono chiudere a oltranza i boschi senza neanche una minima rassicurazione per il nostro futuro!
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