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Si sente parlare delle violazioni dei diritti dei lavoratori dell’industria tessile soprattutto in occasione dei Black Friday, l’ultimo dei quali è stato il 26 novembre. In realtà, queste giornate rappresentano solamente la punta dell’iceberg. Campagna Abiti Puliti, composta da una rete di associazioni – otto solo in Italia – attiva da più di vent’anni, svolge un lavoro di advocacy e sensibilizzazione rivolto alle aziende, ai consumatori e alle istituzioni per accendere i riflettori, 365 giorni all’anno, sulla filiera produttiva dell’industria della moda, troppo spesso caratterizzata da grandi iniquità.
Tutto comincia però più di trent’anni fa, con l’attivazione di Clean Clothes Campaign, che nasce per collegare gli attivisti e le azioni di solidarietà internazionale con i lavoratori dei Paesi, asiatici soprattutto, che lavorano in condizioni di sfruttamento. Coordina la campagna italiana la cooperativa sociale di commercio equo Fair.
«Promuoviamo delle azioni urgenti, dedicate a specifici casi di abuso dei diritti fondamentali, ma anche delle campagne più trasversali», spiega Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale di Campagna Abiti Puliti e presidente di Fair. «Dal 2017, assieme ad associazioni, organizzazioni e sindacati internazionali, portiamo avanti una campagna sulla trasparenza, per chiedere alle imprese di pubblicare i dati minimi relativi a tutta la filiera produttiva».
Oltre alla campagna Abiti Puliti ce n’è un’altra, “Pay your workers”, dedicata al raggiungimento di un salario dignitoso per ciascun lavoratore e lavoratrice; sono soprattutto le donne, infatti, ad essere impiegate nel settore tessile. «La pandemia ha provocato una crisi nel settore – prosegue Lucchetti – che ha comportato un drastico restringimento dei diritti, tra i quali la compressione dei salari, già molto bassi prima del Covid-19, e i licenziamenti collettivi e le chiusure di contratto effettuate senza garantire ai lavoratori un trattamento di fine rapporto. Pay your workers promuove l’istituzione di un fondo globale a sostegno di tutti i lavoratori rimasti senza una rete di ammortizzatori sociali».
Campagna Abiti Puliti lavora in tutti i Paesi dove è collocata la produzione tessile. Anche se l’Asia è sicuramente la regione che conta più fabbriche che operano nel settore, al centro del lavoro della rete c’è tutto il cosiddetto “Global South”, nel quale emergono i Paesi del Nord Africa, dove ci sono molti siti che riforniscono aziende europee e statunitensi, dell’Est Europa e del Centro America.
Il Black Friday è solo una delle tante giornate d’azione di Campagna Abiti Puliti
Per due motivi però è importante accendere i riflettori su questa giornata, «simbolo – dice la coordinatrice nazionale di Campagna Abiti Puliti – di un modello di sviluppo da buttare via, un consumismo patologico che vuole tutto e subito a prezzi stracciati».
«Primo – spiega Lucchetti – perché in un contesto di crisi direi che è immorale immettere sul mercato una quantità di merci scontate a prezzi stracciati mentre i lavoratori che le producono, le confezionano e le mobilitano attraverso la logistica e i trasporti hanno degli stipendi che possiamo tranquillamente definire “da fame”. Quando si fanno degli sconti così elevati sul prezzo finale di prodotti di largo consumo, di solito si sta andando a contenere qualche altro elemento di costo. E normalmente i costi che vengono contenuti sono quelli del lavoro, oltre a quelli ambientali».
Il secondo elemento invece è legato allo sviluppo delle piattaforme digitali, tra le quali Amazon è solamente la più conosciuta. «Gli stessi grandi marchi hanno le proprie piattaforme, attraverso le quali vendono online i prodotti che prima si trovavano soltanto nei grandi magazzini», spiega Lucchetti, che aggiunge: «Il commercio digitale è esploso durante la pandemia, portando a livelli vertiginosi i fatturati e i profitti di queste aziende; un incremento che però non è andato di pari passo con l’ampliamento dei diritti dei lavoratori, che anzi si sono ulteriormente impoveriti».
La Campagna Abiti Puliti fa pressione sulle aziende e sensibilizza i consumatori, coinvolgendo però anche le istituzioni
Quando si pensa al mercato della moda, si ragiona sulla domanda (i consumatori) e sull’offerta (le aziende). C’è però un terzo pilastro del cambiamento, le istituzioni, che possono favorire un modello anziché un altro. «È cruciale avere delle buone regole che vincolino le imprese – sottolinea Lucchetti –, ma negli ultimi decenni di neoliberismo sfrenato il sistema delle regole è stato completamente spazzato via da un’idea di mercato libero, senza vincoli e senza alcun tipo di contenimento. Il nostro lavoro, quindi, è anche quello di stimolare il potere pubblico affinché dia la priorità ai diritti umani».
Se è vero che l’atteggiamento dei consumatori deve e può cambiare, Lucchetti ricorda però la gerarchia tra potere pubblico e cittadini-consumatori. «Penso che il potere dei consumatori possa contribuire a cambiare l’offerta – dice –, ma è principalmente attraverso una modifica delle regole del gioco che si può indurre le imprese a cambiare comportamento. È sbagliato dare la responsabilità solamente ai consumatori. Bisogna invece darne di più a chi immette nel mercato prodotti insostenibili non solo da un punto di vista ambientale e sociale, ma anche da un punto di vista sanitario: non dimentichiamo che i prodotti della fast-fashion possono contenere anche ingredienti tossici per le persone».
Un elemento che avvicina, e di molto, il problema dell’industria della moda al consumatore. «Il problema non riguarda soltanto l’inquinamento di un fiume o le tintorie di un Paese come il Bangladesh, che lavorano senza i più elementari requisiti di sicurezza», spiega Lucchetti. «Il consumatore a volte indossa prodotti che possono rilasciare delle sostanze chimiche pericolose o che comunque sono soggetti a problemi sanitari di cui ancora si parla troppo poco».
Il (vero) costo di un capo di abbigliamento e l’economia circolare contro la logica dell’obsolescenza programmata
Non sempre un capo d’abbigliamento a un prezzo elevato rispetta i criteri di sostenibilità ed equità. Deborah Lucchetti ci fa l’esempio del settore del lusso. «Dobbiamo andare a vedere la catena di valore e come viene distribuita», afferma. «L’importante, quindi, è che il prodotto sia trasparente: deve esserci un’etichetta che mi comunica il vero valore di quel capo d’abbigliamento».
Il Black Friday è il simbolo di un consumismo patologico che vuole tutto e subito a prezzi stracciati
Una delle chiavi del cambiamento è capire che acquistando un prodotto con alte caratteristiche sociali e ambientali anche quando magari ha un prezzo più alto, il beneficio è di tutti: personale, comunitario (anche per le generazioni future) e ambientale. «In questo caso non parliamo più di un acquisto compulsivo, ma di un investimento – dice Lucchetti – di un capo di abbigliamento che possiamo poi riparare. Si aumenta così il ciclo di vita di un oggetto contro la logica mortifera dell’obsolescenza programmata».
C’è però un’altra opzione, il “non-consumo”: «Non abbiamo bisogno di produrre, vendere e comprare tutto ciò che c’è attualmente sul mercato, perché è troppo». Qui entra in gioco l’economia circolare e quindi il riciclo, il riuso e lo scambio dei mercati di seconda mano. «C’è bisogno di un consumo più sostenibile, di un abbassamento del ritmo di produzione e di un aumento dei costi per pagare equamente i lavoratori», dice Lucchetti. «Da qualche parte però bisogna pur togliere. In questo caso vanno tolti i profitti delle grandi imprese, che lucrano sulle spalle di milioni di persone».
Le molestie e le discriminazioni sul luogo di lavoro nel mondo della moda: uno studio sul Bangladesh purtroppo “trasversale”
Le dinamiche di violenza fisica, psicologica e soprattutto economica purtroppo non fanno sconti neanche al mondo della moda, dove gli uomini sono solitamente in posizioni gerarchiche alte, mentre le donne lavorano come operaie addette alla produzione. Un rapporto pubblicato in occasione del 25 novembre 2020 da Campagna Abiti Puliti offre uno spaccato della situazione in Bangladesh, che però accumuna anche altri Paesi.
«Sono tantissime le donne che lamentano situazioni di grande stress, ricatti e molestie sul luogo di lavoro», commenta Lucchetti. «È ordinario. Trovo agghiacciante che per una donna possa essere normale prendere uno schiaffo sul luogo di lavoro per raggiungere al meglio il suo obiettivo produttivo della giornata, perché magari c’è molta pressione sui tempi di consegna e perché vengono fatte cattive verifiche da parte dei committenti».
I risultati della Campagna Abiti Puliti: l’accordo sulla sicurezza e la prevenzione degli incendi e una maggiore trasparenza delle imprese
Difficile parlare di risultati quando si lavora in un settore così complesso e sensibile, però dei passi in avanti negli ultimi anni ci sono stati: «Abbiamo rinnovato recentemente l’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici, che negli ultimi otto anni ha coinvolto il Bangladesh ma che adesso è possibile estendere anche ad altri Paesi».
L’accordo è arrivato all’indomani della tragedia del Rana Plaza, avvenuta il 24 aprile del 2013, nella quale hanno perso la vita più di mille persone. «Si tratta di un accordo importantissimo perché stabilisce un sistema di monitoraggio e di verifiche qualificate e veramente indipendenti, che non sono a capo del marchio committente o dell’azienda produttrice. Inoltre è un patto vincolante e questo ci dice molto su quali siano i meccanismi che portano a un reale cambiamento nella vita delle imprese e dei lavoratori».
Non c’è ancora una legge invece che obblighi le imprese a essere trasparenti, ma tanta strada è stata fatta e molte imprese si sono avvicinate a standard abbastanza elevati di trasparenza. «Non è avvenuto per caso, ma perché lo abbiamo chiesto», precisa Deborah Lucchetti. «La trasparenza è fondamentale perché permette ai vari attori, compresi quelli di Campagna Abiti Puliti, di fare un lavoro di monitoraggio indipendente. Se non conosco la catena di fornitura, infatti, è impensabile andare a indagare le condizioni di lavoro e il rispetto dei diritti dei lavoratori».
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