3 Feb 2022

Il cambiamento in Calabria è possibile? Sì, proviamo a capire come

Scritto da: Elisa Elia

Con il professor Domenico Cersosimo analizziamo il contesto politico, sociale ed economico della Calabria. L'obiettivo è capire se ci sono i presupposti affinché questo territorio fertile ma ostico possa rigenerarsi e diventare – perché no? – un modello di rinascita per tutte le aree interne e marginali del nostro paese.

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Davvero la fuga dalla Calabria è l’unica opzione possibile? La punta dello stivale è irrimediabilmente sommersa sotto la marea della malapolitica corrotta e clientelare? Le forze giovani, innovative, etiche e solidali che le pieghe del tessuto socio-economico regionale nascondono sono destinate a rimanere potenzialità inespresse?

Questi interrogativi li abbiamo girati a Domenico Cersosimo, docente di Economia applicata all’Università della Calabria e membro del gruppo promotore di Riabitare l’Italia. Con lui abbiamo parlato della Calabria, delle sue peculiarità e di come può cambiare.

Lei ha alle spalle decenni di studio e di esperienza sul campo qui in Calabria, come docente ma anche nel lavoro con imprese e in amministrazione. Se dovesse individuare i problemi principali, i fulcri su cui lavorare qui in regione, da quali partirebbe?

Il problema principale è l’assenza di una classe dirigente adeguata. Mancano èlites modernizzanti, nella sfera politica e non, capaci di guardare lontano, oltre il quotidiano, al di là del ciclo elettorale. Per complesse ragioni, che per brevità non è possibile ripercorrere in questa breve conversazione, in Calabria si è nel tempo consolidata una classe dirigente schiacciata sul breve periodo nella gestione delle emergenze congiunturali e poco interessata a misurarsi con i problemi strutturali che si sono stratificati nel tempo.

Dominano, nell’eccezione di Acemoglu e Robinson, classi dirigenti “estrattive”, che dal “non-sviluppo” estraggono vantaggi personali di carattere economico, politico, di potere, per autoperpetuarsi. Manca una visione, un racconto credibile, mobilitante, che faccia intravedere un possibile volto nuovo della Calabria tra dieci o vent’anni. Se avessimo una classe dirigente in grado di fare questo racconto, forse non sarebbe difficile utilizzare le nostre risorse umane, materiali e finanziarie, tutt’altro che marginali, in modo integrato per alimentare innovazione e trasformazione sociale e rompere la “trappola da sottosviluppo”.

Crede che per un cambiamento sostanziale sia necessaria la politica istituzionale o che questo possa avvenire in autonomia dal basso?

Sono convinto che il blocco socio-politico “estrattivo” sia ormai così radicato che non possa essere spezzato dall’interno e che pertanto il cambiamento necessiti di forti e radicali interventi da parte di soggetti esterni. Per destabilizzare le convenienze sociali e istituzionali allo status quo credo che siano necessarie stringenti condizionalità esterne, nazionali o europee, che aiutino e accompagnino e, quando necessario, “costringano” le istituzioni e i soggetti locali a nuove strategie d’azione.

La sfiducia non è qualcosa che sta nel DNA dei calabresi: le persone sono sfiduciate perché vivono in un contesto “sfiduciante”, pervaso da reti sociali vischiose, particolaristiche, clientelari

Il centro – il Governo nazionale o l’Unione Europea – attraverso la “carota” dei trasferimenti finanziari dovrebbe imporre (il “bastone”) il conseguimento di obiettivi mirati, misurabili, e le modalità del loro conseguimento, anche attraverso l’affiancamento delle strutture locali con competenze e capacità esterne, in modo da delegittimare i rentiers e aprire spazio agli innovatori, al dibattito acceso, al conflitto. L’intervento esterno dovrebbe scovare e sostenere le esperienze trasformatrici, che pure non mancano in regione: singole imprese, reti aziendali, corte e lunghe, strutture di ricerca, soggetti di innovazione sociale. Sono esperienze che nei loro contesti già stanno cambiando le cose, il problema è che lo fanno nelle loro enclave, in modo puntiforme e spesso nel cono d’ombra della informazione pubblica.

Giriamo la medaglia: quali sono invece le peculiarità (positive) da valorizzare? Quali motori possono far ripartire la nostra terra?

Ancora adesso abbiamo un buon numero di ragazzi, che molto spesso perdiamo. I giovani sono il punto di forza più grande, la leva più importante del cambiamento e che dunque dovremmo curare con attenzione, con investimenti e politiche scolastiche e sociali innovative, strutturali. Diversamente dalle leggi dell’economia – tanto più un bene è scarso quanto più è apprezzato – il “bene” scarso giovani è svalorizzato, trascurato, marginalizzato. Poi ci sono tante altre cose: mi vengono in mente la straordinaria biodiversità della nostra terra, il porto di Gioia Tauro, le università. Casematte slegate, disconnesse le une dalle altre, dotate di un elevato potenziale di cambiamento se fossero utilizzate in modo integrato e dinamico e collegate a strutture e soggetti extraregionali.

cersosimo 00
Domenico Cersosimo
In tutti questi processi, che ruolo hanno o possono avere le università in Calabria?

Hanno un ruolo importante, innanzitutto nella formazione di migliaia di giovani laureati e di cittadini avvertiti, curiosi, reattivi. Un laureato produce benefici per sé e per il contesto, alimenta esternalità positive: cittadini che si ammalano meno, con speranze di vita più alte, più predisposti alla partecipazione civica e politica, lavoratori a più alta produttività. Investire nella formazione di laureati è decisivo, a maggior ragione nella nostra regione dove i residenti in possesso di laurea sono ancora scandalosamente pochi.

Ma vedo anche i limiti delle università nella loro persistente incapacità a operare come un soggetto sociale a tutto tondo: tendono a configurarsi come fortezze preoccupate di essere contaminate dal contesto esterno e dunque hanno difficoltà ad aprirsi all’interazione con gli altri soggetti istituzionali. Tuttavia, senza politiche d’ateneo intenzionalmente rivolte a favorire impatti al di fuori dei propri perimetri, difficilmente le università diventeranno attori cruciali del cambiamento.

Negli ultimi anni, complice la pandemia, ha preso corpo un grande movimento verso le aree interne e anche veri e propri ritorni (alla terra o al proprio borgo). Come legge questo fenomeno? Può essere, nei nostri paesini isolati e con pochi servizi, qualcosa di duraturo e non destinato soltanto a persone privilegiate?

C’è una retorica neo-romantica sul ritorno nei cosiddetti “borghi”, paradossalmente anche da parte di coloro che nel passato hanno alimentato la narrazione urbanocentrica che considerava i paesi, soprattutto quelli interni, come residuali, arcaici, scarti. Qualcosa è comunque accaduto e sta accadendo, si nota una qualche inversione di tendenza: giovani ritornanti, famiglie che decidono di spostarsi dalla città ai paesi, abitanti part-time che si dividono tra città e campagna. Insomma, si avverte una flebile domanda di riabitare aree demograficamente rarefatte, dove è possibile una riconnessione con la natura, meno inquinate, dove sperimentare stili di vita più lenti.

Da un paio di anni con un nutrito gruppi di esperti e accademici e l’editore Donzelli abbiamo dato vita all’Associazione Riabitare l’Italia, proprio con l’obiettivo di dare voce alle aree del margine, di studiare i fenomeni insorgenti, per monitorale i nuovi flussi umani e, più in generale, per guardare il Paese intero dai luoghi marginalizzati. Tuttavia per essere abitati e riabitati i paesi devono essere dotati di adeguati servizi di cittadinanza: ancora oggi le scuole, i servizi socio-sanitari, i trasporti, la rete internet sono nei paesi a livello quanti-qualitativi di molto al di sotto di quello compatibile con la presenza umana.

civita calabria
Noi di Italia Che Cambia lavoriamo molto sulla narrazione e sull’immaginario. Si sente parlare spesso della Calabria e dei calabresi come di persone rinunciatarie, che non credono nel cambiamento della propria regione. Secondo lei questo atteggiamento esiste effettivamente?

Anch’io noto una grande sfiducia sistemica, soprattutto nei più giovani. Per molti la Calabria non è più un luogo dove sia possibile costruire futuro. La sfiducia non è qualcosa che sta nel DNA dei calabresi: le persone sono sfiduciate perché vivono in un contesto “sfiduciante”, pervaso da reti sociali vischiose, particolaristiche, clientelari. Non è un caso che sempre più esperienze locali di un qualche successo tendano all’autocontenimento, all’oscuramento, proprio per evitare di essere “catturati” dalla malapolitica, dalla criminalità, dai circuiti viziosi della mediocrità e degli equilibri al ribasso.

Per questo sarebbe cruciale che ci fosse una mobilitazione generale – per dirla con Italo Calvino – per “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Per far vedere che nonostante l’ostilità del contesto è possibile avviare e realizzare buone imprese, buona formazione scolastica, buona ricerca, buona cittadinanza, buona amministrazione pubblica, buona politica. Esempi simbolici utili anche a far crescere la speranza e la fiducia, a dare coraggio. In tutto ciò, l’informazione può avere un ruolo molto importante: far vedere che l’exit (l’andarsene) dalla Calabria non è l’unica libertà possibile.

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