24 Gen 2022

Vaccini Covid, efficacia ed effetti collaterali: ecco cosa dicono i dati

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti

Continuano i nostri approfondimenti sulle tematiche legate alla pandemia da Covid-19 e la sua gestione. Oggi affrontiamo la questione più spinosa: quella dei vaccini. Quanto funzionano? E quali effetti collaterali hanno? Sono vantaggiosi per tutte le fasce di età e categorie? Cerchiamo di capirlo procedendo con cautela fra dati e studi scientifici.

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Proseguiamo la nostra inchiesta sul Covid-19 affrontando l’argomento forse più spinoso in assoluto: i vaccini. Sono o non sono efficaci? Quali effetti collaterali hanno? Esistono delle classi di età in cui i rischi superano i benefici? 

Il tema è scottante, il rischio di ustionarsi molto alto: dobbiamo come al solito cercare di affrontarlo scevri – per quanto possibile – da pregiudizi e condizionamenti. Lo scopo di questo articolo non è dimostrare alcuna tesi prestabilita, né convincere le persone a vaccinarsi o non vaccinarsi. È piuttosto cercare di mostrare un’immagine il più possibile veritiera della situazione, con tutte le sue inevitabili zone grigie e gli interrogativi irrisolti. Partiamo dall’analisi dello scenario. 

Si fa presto a dire vaccino

Il primo fatto che balza agli occhi è che è molto difficile fare un discorso generale sull’efficacia e i rischi dei vaccini, dato che stiamo parlando di tanti farmaci diversi. Secondo il sito Covid19 Vaccine Tracker, un’iniziativa finanziata dalla McGill University Interdisciplinary Initiative in Infection and Immunity esistono al momento (gennaio 2022) 31 diversi vaccini. Solo 10 di questi sono approvati dall’OMS, mentre gli altri sono comunque approvati da almeno un paese e alcuni hanno una distribuzione molto ampia, come lo Sputnik V, il vaccino russo diffuso in 74 Paesi differenti. 

Le logiche dell’approvazione sono solo in parte medico-scientifiche: molto spesso entrano in gioco dinamiche politiche, geopolitiche ed economiche. Ad esempio il vaccino cubano Soberana – che secondo alcuni studi ha un’efficacia molto alta, superiore al 90%, e inoltre è pubblico e ha un costo contenuto – è stato approvato solo in altri tre paesi oltre a Cuba: Iran, Venezuela e Nicaragua.

I vaccini differiscono anche per il “metodo” utilizzato per stimolare la risposta del sistema immunitario. Tutti contengono un “antigene”, ovvero un qualcosa di appartenente al patogeno rispetto a cui si vuole immunizzare. Quasi tutti i vaccini contro il Sars-CoV-2 immunizzano rispetto alla proteina Spike, una particolare proteina che il virus usa come “chiave” per agganciarsi alle cellule. I modi in cui questa immunizzazione avviene tuttavia possono variare anche di molto

Fra i primi vaccini sviluppati per il Covid ci sono stati quelli a RNA messaggero (mRNA) e quelli a vettore virale. Si tratta di due sistemi simili, perché in entrambi i casi si inserisce nell’organismo un tratto di materiale genetico del virus bioingegnerizzato in modo da risultare innocuo. Nel primo caso (ad esempio Pfizer e Moderna) si inserisce il codice necessario alle cellule per produrre la proteina Spike. Nel secondo caso invece (ad esempio AstraZeneca e Johnson & Johnson) si inietta un altro virus opportunamente ingegnerizzato e reso inoffensivo, il cui scopo è comunque produrre una reazione immunitaria alla proteina Spike.

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Questi due tipi di vaccini, che sfruttano tecnologie relativamente recenti (soprattutto quelli a mRNA) sono stati i primi a essere prodotti perché hanno tempi più brevi e costi più limitati rispetto a quelli tradizionali. 

Tuttavia ne esistono adesso anche di altri tipi. I vaccini inattivati, che introducono nell’organismo una certa di quantità del virus ucciso (per quanto ci sia un vivo dibattito sull’opportunità di considerare “vivi” i virus) attraverso il calore o agenti chimici (ad esempio i cinesi Sinovac e Sinopharm). Quelli proteici, come il cubano Soberana o il recentissimo Covavax (prodotto dall’americana Novavax), che introducono direttamente la proteina Spike, precedentemente coltivata in vitro e unita a una molecola adiuvante, all’interno dell’organismo.

Protezione dal contagio

Fin qui le cose semplici. Adesso iniziamo ad addentrarci in aspetti più difficili da indagare perché entrano in gioco più fattori: il modo in cui vengono presentati i dati, le politiche dei governi, le varianti del virus. In questo contesto risulta estremamente facile dimostrare praticamente qualsiasi cosa facendo cherry picking fra i milioni di dati disponibili.

Come muoversi, dunque? Possiamo partire analizzando alcuni aspetti e provare a fare delle ipotesi. Innanzitutto: cosa vuol dire che un vaccino funziona? In linea di massima possiamo dire che un vaccino funziona se riduce di una certa percentuale la probabilità di contrarre l’infezione in questione e di sviluppare sintomi gravi. 

Partiamo dal primo aspetto: quanto i vaccini proteggono dal contrarre l’infezione? Purtroppo non esistono ancora dati aggregati a livello globale che siano attendibili, perciò ci limiteremo a vedere alcuni casi. In Italia l’ultimo report dell’Istituto Superiore di Sanità afferma che i vaccini presenti nel nostro paese mediamente riducono il rischio di contrarre il virus (rispetto ai non vaccinati) del 71% entro 90 giorni dal completamento del ciclo vaccinale, del 57% tra i 91 e 120 giorni, e del 34% oltre 120 giorni. 

Tuttavia il modo in cui l’ISS presenta i dati è poco dettagliato e non distingue fra tipi diversi di vaccini e varianti del virus, né mostra cosa avviene esattamente alla curva di protezione dopo i 120 giorni. Un report più dettagliato è quello settimanale emesso dal governo inglese. In questo caso si parla di protezione dallo sviluppo dei sintomi ed ecco cosa viene detto:

  • C’è una leggera differenza di efficacia fra i vari vaccini (considerando solo i tre maggiormente in uso), con la classifica che vede Moderna, seguito da Pfizer e da AstraZeneca
  • C’è molta differenza nella protezione offerta nei confronti di Omicron, che è minore di circa 20 punti percentuali rispetto alle varianti precedenti
  • La vaccinazione nei confronti di Omicron (al momento la variante predominante) offre una protezione sufficientemente alta fra la 2a e la 4a settimana (45-75% a seconda del vaccino) ma cala rapidamente e tende allo zero a partire dalla 20a-25a settimana (quinto-sesto mese). La dose booster fa salire nuovamente la protezione al 60-75%, con un andamento successivo che sembrerebbe simile, ma non si hanno dati sufficienti per monitorare l’andamento per un periodo equivalente di tempo.

Questi dati sono in linea con quelli della maggior parte dei paesi del mondo che utilizzano questi vaccini. Sono consistenti? Con la mole di dati che abbiamo iniziano a esserlo. Sono attendibili? Essendo molto simili di paese in paese, possiamo desumere che lo siano.

Va registrato anche il fatto che alcuni studi stanno mostrando un fenomeno bizzarro. In alcune circostanze, trascorso un certo periodo di tempo, le persone vaccinate tendono a contrarre più facilmente l’infezione rispetto a quelle non vaccinate. È il caso della Danimarca, ad esempio, dove nel periodo compreso fra i 3 e i 5 mesi successivi alla vaccinazione le persone vaccinate si ammalano molto più facilmente rispetto a quelle non vaccinate (50-70% in più). 

Questo ha fatto sorgere alcune domande su ipotetici danni al sistema immunitario causati dalle vaccinazioni anti-Covid. Il tema è sicuramente da approfondire, anche se la giustificazione più probabile – e accolta dagli stessi ricercatori – di questo apparente paradosso sta nella differenza nei comportamenti e nella vita sociale fra vaccinati e non vaccinati (dovuta anche a strumenti normativi tipo il Green Pass) al momento dell’irruzione della variante Omicron. 

Ad ogni modo, a fianco a questi dati specifici c’è un altro macrodato che è impossibile non considerare, ovvero che l’effetto delle campagne di vaccinazione sulla circolazione generale del virus è stato molto ridotto, se non praticamente nullo. Pur avendo una certa efficacia nella protezione del singolo individuo, i vaccini non hanno avuto – anche per via delle nuove varianti, in particolare Omicron – l’effetto di rallentare visibilmente i contagi né tantomeno di creare la tanto agognata immunità di gregge. 

Attenuamento dei sintomi

Passiamo ora a discutere del secondo aspetto rilevante, ovvero la protezione dai sintomi più gravi della malattia. Su questo fronte i vaccini sembrano avere un effetto maggiore e più prolungato rispetto alla prevenzione dal contagio. Secondo i dati dell’ISS, i vaccinati con ciclo completo da meno di cinque mesi hanno il 93% di probabilità in meno di sviluppare forme gravi, rispetto ai non vaccinati, percentuale che scende attorno all’84% superati i cinque mesi (e presumibilmente continua a scendere nel tempo). 

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Questo dato sembrerebbe trovare conferma nei dati relativi ai ricoveri ospedalieri. Sempre secondo l’ISS, l’incidenza dei ricoveri in terapia intensiva in Italia è di 26,7 ogni 100 mila tra i non vaccinati e di 0,9 ogni 100 mila per vaccinati booster. Secondo la Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso) i pazienti non vaccinati rappresentano il 52% dei ricoverati per Covid nei reparti ordinari degli ospedali (e con un’età media più bassa, di 63 anni contro i 71 dei vaccinati) e il 72% di quelli in rianimazione. 

Anche in questo caso i dati di molti altri paesi (ad esempio quelli inglesi) sembrano in linea con quelli italiani nell’indicare un buon effetto dei vaccini nel tutelare dalle forme gravi della malattia, pur con qualche eccezione. A volte queste eccezioni sono riconducibili a come i dati vengono presentati e all’effetto noto come Paradosso di Simpson.

In altri sono al momento più difficili da spiegare, come ad esempio nel caso della Scozia, dai cui dettagliati report settimanali emerge che fra gli scozzesi la probabilità di sviluppare forme gravi di Covid-19 sia molto simile fra persone vaccinate da più tempo, con una o due dosi, e persone non vaccinate – anzi, in diverse finestre temporali è superiore per i primi – pur restando nettamente inferiore per coloro che hanno ricevuto la dose booster. È possibile che esistano variabili o specificità di cui non stiamo tenendo conto che spiegano questa discrepanza, ma il dato è sicuramente da approfondire, visto soprattutto il contrasto con quanto emerge dai report di altri paesi.  

Un campo ancora ampiamente da esplorare è l’efficacia del vaccino nel proteggere dal cosiddetto long Covid, ovvero il prolungarsi di alcuni sintomi anche per molti mesi dopo la scomparsa dell’infezione. Ci sono già alcuni studi, ma i risultati sono fin qui contrastanti e non è chiaro se il vaccino abbia o meno un’efficacia da questo punto di vista.

Cosa succede dopo la terza dose?

Restano alcune domande aperte. Ad esempio, cosa succede dopo la terza dose? Abbiamo visto che gli effetti della vaccinazione (e presumibilmente anche della dose booster) calano rapidamente col passare delle settimane. Alcuni stati, come Israele e Cile, hanno già iniziato la somministrazione della quarta dose, lasciando intendere che la tendenza sia quella di proseguire indefinitamente con richiami della vaccinazione ogni 4-6 mesi.

Ma la questione è tutt’altro che scontata. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato che “una strategia di vaccinazione basata su richiami ripetuti dei vaccini attuali ha poche possibilità di essere appropriata o sostenibile”, aggiungendo che sarebbe opportuno sviluppare nuovi vaccini di diverso tipo per continuare a garantire la copertura anticorpale. 

L’Ema, Agenzia europea per i medicinali, ha recentemente lanciato un monito ancora più netto sui booster, sottolineando che “se si continua a effettuare richiami, i vaccini attualmente a disposizione finiranno per non provocare più la risposta immunitaria al Covid”

Secondo alcuni esperti, una somministrazione ripetuta e a distanza ravvicinata del vaccino potrebbe portare addirittura a una paralisi immunitaria, ovvero una risposta sempre più debole in termini di protezione dal virus, per via di un sovraccarico di stimoli.

Cosa fare dunque? Molti confidano in una soluzione “naturale”, ovvero che l’immunità naturale portata da Omicron sia sufficiente a tirarci fuori dagli impicci e trasformare la pandemia in endemia. Altri auspicano nuove tipologie di vaccini di seconda generazione (mucosali, pluri-componenti e aggiornati rispetto alle varianti) capaci di fornire protezioni adeguate aggirando il problema della paralisi. 

Effetti collaterali

Ecco che entriamo in un campo ancora più complesso, ovvero quello delle reazioni avverse ai vaccini, che è probabilmente l’argomento più discusso dell’ultimo anno, nonché il principale timore di chi sceglie di non vaccinarsi. È difficile ottenere dei dati “puliti” perché la relazione causale fra una vaccinazione e una reazione avversa non è sempre facilissima da stabilire e molto dipende dai sistemi utilizzati per monitorare il fenomeno. Di conseguenza si rischia di sottostimare il problema o viceversa di cadere nel bias del post hoc ergo propter hoc che consiste nell’attribuire qualsiasi cosa succeda dopo la vaccinazione alla vaccinazione stessa.

Procediamo con ordine (e cautela). I trial clinici dei vaccini hanno riportato reazioni avverse poco frequenti e moderate, tuttavia la loro attendibilità è abbastanza incerta per via dei tempi molto rapidi con cui sono stati condotti e di alcuni vizi di forma che continuano a emergere a distanza di mesi, come quello del cosiddetto Pfizer Gate.

I dati ufficiali dei Governi ci parlano perlopiù di effetti collaterali non così frequenti e quasi sempre di lieve entità. Secondo l’Aifa le reazioni avverse generiche sono circa 120 ogni 100mila dosi somministrate, di cui 17 considerate gravi. Le percentuali molto basse sono però anche il frutto della modalità con cui vengono collezionati i dati: una modalità chiamata di “vigilanza passiva”, basata sulle segnalazioni da parte degli utenti e dei medici curanti, che tralascia un gran numero di casi che per varie ragioni non vengono segnalati. 

Esistono ancora pochi dati relativi a sistemi di vigilanza attiva, in cui vengono seguite tutte le persone vaccinate per monitorarne le eventuali reazioni avverse. I pochi studi basati su sistemi di vigilanza attiva fin qui realizzati hanno dato risultati contrastanti: uno studio realizzato tra gli operatori sanitari in Repubblica Ceca ha mostrato che gli effetti indesiderati del vaccino Pfizer-BioNTech erano significativamente più frequenti di quanto riportato dai produttori nel trial.

Similmente lo erano gli effetti collaterali dei vaccini Moderna e CoronaVac tra gli operatori sanitari di rispettivamente, Stati Uniti e Turchia. D’altra parte un’altra ricerca ha mostrato che gli effetti collaterali dei vaccini Pfizer-BioNTech e Oxford-AstraZeneca si sono verificati meno frequentemente rispetto a quanto riportato nella fase 3 del trial.

Un altro fattore che dobbiamo considerare è il cosiddetto effetto nocebo, ovvero l’effetto speculare al placebo. Quando assumiamo qualche sostanza che temiamo possa danneggiarci (in questo caso il vaccino) saremo più predisposti ad avvertire sintomi e reazioni avverse. Uno studio recente ha mostrato che il 35% delle persone che ricevevano un’iniezione di acqua e sale lamentavano alcuni degli effetti avversi più comuni, come dolore al braccio, mal di testa, ecc. Il nocebo, secondo i ricercatori, potrebbe essere alla base dei ¾ degli effetti collaterali segnalati dai sistemi di farmacovigilanza attivi. Va detto, per completezza di informazione, che per quanto sia più difficile fare studi a riguardo, un effetto analogo al nocebo si verifica plausibilmente anche con i sintomi della malattia: scoprire di aver contratto il virus aumenta plausibilmente la percezione dei sintomi.

Ad ogni modo, bisogna distinguere fra eventi avversi lievi e gravi. Gli effetti collaterali lievi più frequenti come dolore e indolenzimento attorno al sito dell’iniezione, febbre, mal di testa non sono considerati problematici, ma sintomo della avvenuta risposta immunitaria da parte dell’organismo. Il discorso cambia quando parliamo di eventi avversi gravi. 

Una prima osservazione di carattere generale che possiamo fare è che, se durante le peggiori ondate di Covid gli ospedali – e in particolare i reparti terapia intensiva – erano stracolmi di pazienti, lo stesso effetto non si è avuto con la campagna di vaccinazione di massa, con circa 600mila dosi somministrate ogni giorno in Italia (il triplo dei casi di picco registrati nel nostro paese). Mediamente quindi sembra abbastanza evidente che il vaccino presenti meno rischi rispetto al virus. Questo tuttavia potrebbe non essere vero per alcune categorie specifiche.

Should I Vaccinate My Children

Osserviamo gli eventi avversi gravi più da vicino. L’effetto che più ha destato preoccupazione – l’unico in cui si rilevano fin qui differenze importanti rispetto agli studi clinici dei vaccini — è quello delle miocarditi e pericarditi ed eventi a esse correlati. Si tratta di infiammazioni del muscolo cardiaco che spesso si risolvono in pochi giorni, ma nella loro fase più acuta (pericardite) possono risultare anche letali.

Secondo uno studio del luglio scorso, negli Stati Uniti su 296 milioni di dosi di vaccini Covid-19 mRNA somministrati (all’11 giugno 2021), il sistema nazionale di monitoraggio passivo della sicurezza dei vaccini (VAERS) ha ricevuto 1.226 segnalazioni di miocardite. Tra le persone con miocardite segnalata dopo la vaccinazione mRNA, l’età mediana era di 26 anni, per la maggior parte maschi.

Le miocarditi sono comunque anche uno dei tanti possibili sintomi gravi (pur rari) del Covid. Dalle analisi è emerso che nel 2020, rispetto all’anno pre-pandemia e prima della campagna di vaccinazione di massa, i casi di miocardite sono aumentati del 42%. La miocardite sembra coinvolgere lo 0,15% dei pazienti ricoverati con Covid quindi, a spanne, coinvolge circa 5-10 persone su 100mila casi totali. Mentre sulla base dei dati VAERS l’incidenza delle miocarditi nei vaccinati è mediamente di 0,48 su 100mila. Percentuale che però sale a 1,2 casi su 100mila per chi ha fra i 18 e i 29 anni.

Un’altra reazione avversa grave, in alcuni casi anche fatale, è quella delle trombosi. Si tratta anche in questo caso di un evento raro, ma di cui è stata riconosciuta un’associazione in particolare con i vaccini basati sul vettore adenovirale. Una ricerca pubblicata su Science e Blood sostiene che la causa di questa trombosi è una risposta anticorpale-mediata ai complessi formati tra l’adenovirus e il fattore 4 delle piastrine. 

Non ci sono invece ancora studi attendibili sugli effetti dei vaccini sul ciclo mestruale. Si tratta di un evento avverso riportato da diverse donne (ritardi, anticipi, flussi più abbondanti o dolorosi) su cui adesso stanno indagando gruppi di ricerca di alcune delle prestigiose università statunitensi, con un investimento complessivo di oltre 1.6 milioni di dollari. Le irregolarità del ciclo sembrano comunque fin qui piuttosto confinate nel tempo.

Ci sono infine alcuni aspetti su cui non esistono al momento certezze, ma che andranno certamente approfonditi. Ad esempio uno studio su cellule in vitro sembrerebbe mostrare un’azione della proteina Spike nell’inibire la capacità delle cellule di riparare il Dna danneggiato, un processo essenziale in quanto protegge il genoma da danni e mutazioni nocive alla base di molte malattie degenerative.

Si tratta di uno studio ancora molto preliminare che ci dice poco su quanto questo effetto sia reale e impattante anche sugli organismi viventi più complessi, ma se l’effetto fosse confermato potrebbe giocare un ruolo sia nell’infezione da Covid, che – pur minore e più localizzato – nei vaccini, dato che tutti quelli in commercio sono basati sull’utilizzo della proteina Spike come antigene (ne esistono alcuni basati su RBD ma sono ancora in fase sperimentale o poco diffusi).

Ad ogni modo, è sempre necessario commisurare gli effetti avversi del vaccino con quelli della malattia da cui si vuole proteggere, in modo da poter valutare correttamente i rapporti costi benefici. Al momento gli studi a disposizione mostrano che i vaccini presentano vantaggi ampi rispetto al virus nella maggior parte delle fasce di età e categorie, sebbene la forbice si riduca per alcune. I dati forniti dall’ISS, ad esempio, mostrano che le reazioni avverse sono distribuite in maniera speculare rispetto a quelle del virus: se quest’ultimo colpisce soprattutto i soggetti più fragili, le reazioni avverse al vaccino sono più frequenti soprattutto nelle fasce più giovani di età. 

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Per alcune specifiche categorie – e relativamente ad alcuni effetti avversi – i rischi potrebbero persino superare i benefici: è quanto sembra suggerire un articolo, ancora in fase di pre-print e non ancora revisionato da pari (la cui validità deve perciò essere confermata) relativamente alle miocarditi negli adolescenti maschi in seguito alla seconda dose, la cui occorrenza, per quanto rara (circa 1 su 100mila), era superiore (nel gennaio 2021) alla probabilità di essere ricoverato all’ospedale per Covid per più di una settimana.  Questi dati, se confermati, potrebbero indicare cautela anche nella vaccinazione in età pediatrica, per quanto non esistano ancora studi consistenti relativi a quella fascia di età. 

Infine, per completezza di informazioni, bisogna aggiungere che quasi tutti gli studi su rischi/benefici effettuati sono antecedenti al diffondersi della variante Omicron, attualmente prevalente in tutto il mondo e che sembra mostrare sintomi più lievi, quindi potrebbe modificare sensibilmente i rapporti rischi/benefici.

Inoltre, se inizialmente si era parlato di una immunità da vaccino fino a cinque volte superiore rispetto a quella naturale, un recente studio sembra mostrare che il rapporto si è invertito con la comparsa delle varianti: chi ha già contratto il virus ha una probabilità fra le 15 e le 29 volte minore di reinfettarsi con la variante Delta rispetto a un vaccinato. Non esistono ancora dati consistenti su Omicron.

Riflessioni finali

Bene, abbandoniamo il magico mondo dei dati e degli studi per qualche commento finale alla questione. Due anni di pandemia sono tanti da vivere, ma sono niente in termini di ricerca scientifica. Ci sono decine di variabili in gioco, spesso intrecciate fra loro, per poter fare affermazioni perentorie. 

Siamo in quello che Cristiano Bottone del Movimento della Transizione chiama “secondo cassetto”. Immaginiamo di avere tre cassetti in cui possiamo riporre le informazioni: nel primo metteremo quelle di cui siamo certi e che possiamo dare per scontate; nel secondo quelle su cui abbiamo alcuni dati, ma ce ne mancano altri, relativamente alle quali dovremo procedere con molta più cautela; nel terzo invece mettiamo quelle di cui non sappiamo quasi niente e su cui dovremo usare la massima cautela.

Trovandoci nel “secondo cassetto”, sarebbe meglio usare sempre molti condizionali, esprimere apertamente dubbi e incertezze e attrezzarci per essere pronti a rivedere le nostre decisioni all’emergere di nuove evidenze. Spesso abbiamo osservato invece la tendenza opposta a diffondere come certe informazioni che invece erano solo ipotetiche e spesso sono state smentite. Questo potrebbe aver contribuito al clima di sfiducia verso l’approccio scientifico e il tema dei vaccini. 

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