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È un lungo viaggio quello che compiono Giulia Minoli ed Emanuela Giordano nel loro ultimo documentario “Se dicessimo la verità”: percorrono la Calabria e i suoi paesini, principalmente quelli della Locride, per poi risalire verso il Centro Italia e arrivare fino in Nord Europa, in particolare Amsterdam, Vienna e Londra, e poi tornare a sud, a Malta.
Viaggiano anche indietro nel tempo, perché per parlare di ‘ndrangheta è necessario ritornare alle sue radici, capire come è nata per comprendere come si è sviluppata. Ma, soprattutto, viaggiano fra le persone che l’hanno incontrata e hanno deciso di denunciarla. Una costellazione che non tutti riescono a rintracciare, ma che esiste.
Chi sono queste persone? Imprenditori, magistrati, parenti di vittime di mafia. C’è il magistrato Gratteri, procuratore presso il tribunale di Catanzaro, che racconta dell’evoluzione e ramificazione della ‘ndrangheta dagli anni 70 ad oggi; c’è Gaetano Saffioti, imprenditore calabrese che ha deciso di denunciare perché fortemente convinto che “la ‘ndrangheta esiste perché noi la facciamo esistere”.
Così come c’è l’esperienza virtuosa delle cooperative Goèl e di Vincenzo Linarello, che abbattono la mafia lavorando sul territorio. E ancora più a sud, a Bovalino – la “capitale dei sequestri” –, c’è Deborah Cartisano, figlia di Lollò Cartisano, fotografo che fu sequestrato e ucciso nel ‘93 perché ribellatosi al pizzo.
Accanto a loro, un ruolo importante in “Se dicessimo la verità” lo rivestono i giornalisti: anche loro sono fra coloro che studiano, seguono le tracce e denunciano, assolvendo un compito fondamentale per la cittadinanza. Sono proprio loro a svelare le ramificazioni ormai internazionali della ‘ndrangheta, in Germania, così come in Danimarca e in Olanda. Come spiega Gratteri, “la ‘ndrangheta all’inizio non è stata presa sul serio perché considerata rozza; oggi si è espansa in tutto il mondo e la Germania, ad esempio, è il secondo posto per presenza di ‘ndrangheta dopo l’Italia”.
Uno degli obiettivi del documentario è infatti «raccontare anche lo sviluppo internazionale della ‘ndrangheta, presente in tutto il continente: purtroppo non si ha la percezione di tutto questo e per questo cerchiamo di raccontarlo con un linguaggio rivolto a tutti, in particolare ai giovani», come dichiarato da Giulia Minoli, co-autrice della pellicola, intervistata dalla Rai in occasione della Festa del Cinema di Roma a ottobre scorso.
Un posto particolare è occupato da Malta e dalla vicenda di Daphne Caruana Galizia, giornalista uccisa nel 2017 e impegnata in diverse inchieste sulla corruzione del Governo. Il suo posto oggi però non è rimasto vuoto perché un suo collaboratore, che le autrici del documentario intervistano, ha deciso di continuare il lavoro di inchiesta giornalistica per far venire a galla la verità.
A incontrare queste persone, concretamente, sono attori e attrici che da anni lavorano in campo teatrale e che sono anche formatori a contatto con i giovani: si sono calati con consapevolezza nella realtà che stavano raccontando, portando un confronto sul tema anche in altri luoghi, soprattutto le scuole. Non è un caso che questo documentario nasca dopo dieci anni di lavoro in campo teatrale con il “Palcoscenico della Legalità”, ideato dall’associazione Crisi come Opportunità di cui Giulia Minoli è presidente.
“Se dicessimo la verità”, uscito nel 2021 e prodotto da JMovie e Rai Cinema in associazione con Lux Vide, è dunque il risultato di un lavoro lungo, di ricerca e di racconto. Sono le storie che possono spiegare al grande pubblico – in particolare ai giovani – perché la ‘ndrangheta è così potente. Ma anche come sconfiggerla.
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