La dura vita di pazienti non Covid (e dei loro accompagnatori) in ospedale
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Sono un giovane sano e in salute, abito in una grande città italiana in cui le strutture sanitarie sono di ottimo livello e molto efficienti, sono vaccinato. La mia compagna si trova nella stessa situazione: giovane, sana e in salute, vaccinata. Poco tempo fa ci siamo trovati ad affrontare una scelta drammatica e molto dolorosa, maturata dopo lunghe riflessioni e accompagnata da grandi dubbi e incertezze: fare un’interruzione farmacologica volontaria di gravidanza.
In questa sede non voglio parlare di questa decisione, che ho citato solamente per far capire a chi legge l’importanza e la gravità del momento che abbiamo attraversato. Quello di cui vorrei parlare è il modo in cui il Covid e tutto lo strascico di limitazioni che si porta dietro hanno influenzato il nostro già difficilissimo percorso. Lo farò raccontando semplicemente i fatti e lasciando a voi trarre le conclusioni.
In una gelida mattina invernale ci rechiamo presso il reparto maternità di uno dei grandi ospedali della nostra città, una struttura d’eccellenza che cura con competenza e passione migliaia di persone ogni giorno, provenienti da tutta Italia. La mia compagna è molto agitata e io non sono da meno, ma ci facciamo forza a vicenda.
A un paio di metri dalla porta d’ingresso scorrevole, il passaggio è bloccato da un banchetto presidiato da un vigilante, che come da protocollo ci chiede di esibire il green pass e ci misura la temperatura. Dopodiché mostriamo l’impegnativa della ginecologa e lui ci indica l’ambulatorio.
«Scusi, lei dove va?», mi chiede vedendoci entrare insieme.
«Accompagno mia moglie», rispondo.
«Per il protocollo Covid non sono ammessi accompagnatori».
«Per favore, io ho bisogno di lui, è un momento molto difficile e non me la sento di affrontarlo da sola», interviene la mia compagna.
«Mi dispiace, fosse per me vi farei anche entrare, ma se lo faccio mi licenziano. Provate a chiedere alla dottoressa magari…».
Rassegnati ci abbracciamo e mentre lei si incammina lungo il corridoio io torno fuori, nel parcheggio. Non ci sono solo i miei dubbi e le mie paure a farmi compagnia. Decine di ragazzi, uomini, ragazzine, mamme e nonne passeggiano al freddo per scaldarsi, chiacchierano fra loro, parlando freneticamente al telefono. Sono i congiunti delle donne che sono dentro. Futuri papà che aspettano la nascita del figlio. Ragazzine che hanno accompagnato l’amica a interrompere una gravidanza arrivata per sbaglio, troppo presto. Compagni di donne con complicanze o patologie che devono essere seguite.
Nessuno è ammesso. Tutti si stanno perdendo eventi importanti, più o meno gioiosi. Tutti sono arrivati insieme alla donna ricoverata e se ne andranno insieme a lei, con cui nella maggior parte dei casi condividono anche il letto, stando quindi a stretto contatto ogni giorno. Eppure nel momento in cui avrebbero maggiormente bisogno di essere uniti – e solo per quel momento – vengono separati.
I miei pensieri vengono interrotti dalla chiamata che speravo tanto arrivasse: la dottoressa mi fa entrare!
«La ringrazio di cuore», le dico appena raggiungo l’ambulatorio.
«Ma grazie di che? La sua compagna è molto agitata, è giusto e necessario che ci sia anche lei».
La dottoressa procede con la visita e ci da appuntamento nel giro di pochi giorni per l’assunzione del primo farmaco. La ringraziamo e usciamo, ma nel corridoio veniamo fermati da un focoso infermiere che mi caccia in malo modo in base al “protocollo Covid”. A nulla serve specificare che è stata la dottoressa stessa che mi ha fatto entrare: vengo buttato fuori a male parole. Per fortuna la visita si è già conclusa.
Andrà molto peggio le tre volte successive. La settimana seguente la scena all’ingresso è la stessa, la tensione e l’agitazione sono ancora maggiori, ma purtroppo mentre aspetto nel parcheggio non arriva nessuna telefonata. Dopo una mezz’oretta di attesa – ma a me sembra siano passati giorni – la mia compagna esce in lacrime, barcollando e appoggiandosi al muro del corridoio. Le corro incontro, la abbraccio, provo a offrirle tardivamente quel conforto di cui avrebbe avuto bisogno poco prima.
Mi racconta con la voce rotta del panico che l’ha assalita quando è entrata, delle infermiere che hanno provato a calmarla, del venir meno della lucidità per prendere una decisione, fare quello per cui era andata lì, compiere un passo talmente incerto che era impensabile farlo senza un appoggio.
Mentre torniamo a casa riflettiamo. Cerchiamo addirittura qualche clinica privata in cui – pur in sicurezza e in osservazione delle norme – ci sia la possibilità di stare insieme, vicini. Proviamo a chiedere se è possibile assumere il farmaco a domicilio o almeno fuori dall’ospedale, nel parcheggio, per essere insieme in quello che sarà uno dei momenti più difficili della nostra vita. Nulla. Lo deve fare da sola.
Per distrarci andiamo a fare la spesa in una grande centro commerciale della città. È pieno di gente, soprattutto anziani. Tutti si affollano per fare acquisti, in prossimità delle casse si snodano lunghe file con decine di persone separate, se va bene, da un carrello della spesa o da un paio di panettoni. Un gruppo di operai sta lavorando per effettuare una riparazione, non hanno neanche la mascherina. Mi sembra tutto assurdo.
Il nostro calvario prosegue nei giorni successivi. Il percorso si conclude e io sono stato un mero spettatore. Impotente, passivo, lontano dal momento e dal luogo in cui c’era bisogno di me. La mia compagna si è caricata sulle spalle un peso che non avrebbe dovuto portare da sola.
Il suo unico conforto sono state le sue “compagne di sventura”, le altre donne che, sole come lei, non hanno potuto far altro che farsi forza l’una con l’altra. Erano in otto, ricoverate in day hospital dentro una piccola stanza con brandine lungo le pareti. Qui sono dovute rimanere dalle 7 di mattina fino alle 16. A nessuna è stato controllato il green pass né effettuato un tampone rapido.
La nostra storia è quella di migliaia di altre persone che ogni giorno negli ospedali italiani si trovano a combattere nemici che non sono il Covid. È quella di migliaia di padri che non possono stringere la mano delle loro compagne mentre esse danno alla luce il loro figlio. È la storia, che a volte non ha neanche un lieto fine, di persone lasciate a morire da sole, senza poter salutare i propri amati prima di partire per il viaggio eterno.
C’è chi potrebbe pensare che questo racconto sia stato eccessivamente condizionato dall’aspetto emotivo. Ma in fondo, non viviamo noi tutte e tutti con e per le emozioni? Da quando siamo diventati automi che non provano più empatia per gli altri e per loro stessi? Da quando abbiamo dimenticato l’importanza del ruolo che il cuore e lo stomaco hanno nel farci essere persone sane – e per “sane” non intendo “senza malattie”?
L’odio e la paura che contraddistinguono i rapporti sociali da due anni a questa parte sono terribili, ma almeno sono dei sentimenti, sono la testimonianza che i nostri cuori sono ancora capaci di sussultare. Quello che mi spaventa davvero è il vuoto di emozioni, l’indifferenza. L’indifferenza di fronte a persone che soffrono. L’indifferenza in base alla quale non siamo più persone, ma soggetti da protocollare. L’indifferenza per cui una lacrima vale meno di un QR code.
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