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“Musungu” in swahili significa persona-con-la-pelle-bianca. “Mungu” nella stessa lingua significa Dio. Vivere qui significa sperimentare costantemente quanto siano sottili ed evanescenti le forme di quell’unica sillaba che separa le due parole. Il bianco qui è bellezza, privilegio, ricchezza e sacralità.
Me ne rendo conto al mercato quando gli sguardi scrutano la mia pelle cercandoci dentro un segreto che non conosco. Me ne rendo conto per strada, quando sconosciuti mi fermano ammirati solo per chiedere una foto. “Musungu, ti ammiro troppo”. Me ne rendono quando dopo un tramonto arancio chiedo al nostro autista di raccontarci una storia popolare del suo villaggio e lui risponde stizzito che quella è stregoneria, maledizione, spazzatura; per lui esiste solo la Bibbia dei bianchi e i racconti che ci sono dentro.
Me ne rendo conto quando i piccoli bambini di Kanyaka mi chiamano con nomi di calciatori e antichi imperatori europei, restando muti quando chiedo in cambio il nome di qualche omologo congolese. Me ne rendo conto vedendo donne di cinquant’anni rovinarsi la pelle del viso utilizzando ogni mattina creme sbiancanti piene di mercurio e idrochinone.
Tutto questo è il frutto di una storia coloniale tanto violenta da essere stata capace di cancellare un passato lungo millenni e sostituirlo col riflesso sbiadito di una cultura lontana migliaia di chilometri. È l’idolatria del pallore. La cosa che fa più rabbia è che questo avviene in un fazzoletto di terra zuppo di storia. Qui sono stati ritrovati gli esempi più antichi di calcolo algebrico (vedasi il bastone di Ishango). Oggi una persona su due ha difficoltà a contare un resto di pochi spicci.
Qui la medicina tradizionale è stata oggetto di studio per decenni da parte dei missionari europei (leggasi un qualsiasi diario di ventura di fine ‘800). Oggi una donna ogni tre in città abusa di farmaci chimici per qualsiasi minuzia. Qui è nata e si è sviluppata una spiritualità complessa e raffinata che faceva del rispetto della natura e del sentimento di unità un dogma condiviso. Oggi basta la parola di un pastore infervorato proveniente da un qualsiasi pulpito per decidere della vita e della morte di bambine sole, tacciate di stregoneria.
Guardo il Congo e vedo l’anima sterile di una società globale affamata di omologazione. In questa terra trovo il terribile simbolo di una storia opprimente e sprezzante della diversità; una storia bianca che s’illumina di valori quando dietro nasconde la realtà vuota della conquista.
Essere qui, vivere quotidianamente questo mondo scavato nel midollo, significa prima di tutto riconoscere questa verità incontestabile e trovarci dentro un privilegio che ci culla da secoli. È così, non possiamo fare finta che non lo sia. Il nostro privilegio ci fa pagare oggetti di consumo la metà del prezzo giusto. Il nostro privilegio ci permette di viaggiare ovunque vogliamo mentre per 3/4 della popolazione mondiale un visto estero è poco meno di un miraggio. Il nostro privilegio ci permette di chiamare “terzo mondo” quei luoghi sacri e antichi che non abbiamo avuto il coraggio di conoscere, ma solo la forza di calpestare.
Dal canto mio, so bene che lavorare per la dignità delle comunità più povere certo non cambierà nulla in un sistema mefitico, radicato e onnipresente. Serviranno generazioni per strappare le liane di questa oppressione culturale. Quello che sento cambiare però è il mio punto di vista sulle cose, la percezione di una realtà ciclica che perennemente suggerisce di guardare più in là di quello che sembra.
Quello che sento cambiare è anche la sensazione di comfort di chi mi sta accanto e vede conficcarsi queste immagini tra gli interstizi delle proprie convinzioni, sgretolandole. Da qui faccio cominciare il mio personale sogno di uguaglianza. Dalla piccola rivoluzione degli occhi che riguarda le singole vite di ognunə di noi. Dalla somma dei cambiamenti che ogni persona può incarnare.
Fintanto che una sillaba sarà l’unica distanza tra bianco e Dio, non ci sarà alcuna possibilità di giustizia. E senza giustizia, essere il colore di Dio non vale nulla.
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