Alcuni paesi e le lobby del petrolio boicottano la Cop26 – Aspettando Io Non Mi Rassegno #5
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Ci siamo. La nostra rassegna stampa commentata sta per tornare e questa è la quinta e ultima puntata di Aspettando Io Non Mi Rassegno. Mercoledì 3 novembre ripartiamo! Come al solito, vi proponiamo quelli che a nostro avviso sono i fatti più importanti della settimana, commentandoli.
Cop26 e tentativi di sabotaggio
Annunciata da una raffica di bombe d’acqua nel Sud Italia, domenica 31 ottobre ci sarà la cerimonia di apertura della Cop26 di Glasgow, la ventiseiesima Conferenza delle parti sul clima, e da lunedì inizieranno i negoziati. Ogni giornata avrà un focus diverso: lunedì il summit dei leader mondiali, martedì si parlerà di finanza e di come mobilitare i flussi finanziari pubblici e privati su larga scala per la mitigazione e l’adattamento climatico, mercoledì di come accelerare la transizione globale verso l’energia pulita. E così via, toccando il tema delle politiche giovanili, della natura e biodiversità, dell’adattamento, dei trasporti e altro ancora, fino alla chiusura di venerdì 12 novembre.
Gli esperti lo definiscono l’incontro più importante di sempre, l’ultima occasione per cambiare. Tutto vero, ma lasciatemi essere per un attimo disincantato. Ne abbiamo perse molte fin qui di ultime occasioni e non ci sono per adesso segnali che fanno pensare a un’inversione di rotta, perlomeno in quella sede. La struttura della Cop rimane all’incirca la stessa di sempre, con i temi affrontati singolarmente e le difficoltà di prendere decisioni vincolanti che permangono.
Nel frattempo si scopre che alcuni paesi e organizzazioni hanno fatto pressione per alterare l’ultimo report dell’IPCC e sminuire l’impatto dei cambiamenti climatici. Secondo una serie di documenti trasmessi alla Bbc da Greenpeace Uk, paesi come Arabia Saudita, Giappone e Australia, assieme a una serie di organizzazioni e aziende, starebbero cercando di sabotare il vertice mondiale sul clima, minimizzando la necessità di allontanarsi rapidamente dai combustibili fossili.
“La fuga di notizie – spiega il Corriere.it – mostra l’esistenza di un vero e proprio blocco di Paesi e organizzazioni (una lobby) che sostengono come il mondo non abbia bisogno di ridurre l’uso di combustibili fossili così rapidamente come raccomanda l’attuale bozza del rapporto. Un consigliere del ministero del Petrolio saudita chiede che «frasi come ‘la necessità di azioni di mitigazione urgenti e accelerate su tutte le scale…’ vengano eliminate dal rapporto»”.
Le Big Oil dovranno apparire al Congresso Usa
Il negazionismo climatico alimentato da interessi economici non è certo cosa nuova. Una novità però c’è: i capi delle principali compagnie petrolifere hanno fatto un’apparizione storica davanti al Congresso Usa questo giovedì per rispondere alle accuse secondo cui le loro aziende hanno passato anni a mentire sulla crisi climatica.
Racconta il Guardian che “per la prima volta, i massimi dirigenti delle più grandi compagnie petrolifera degli Stati Uniti, da ExxonMobil a Shell, Chevron e BP, saranno interrogati sotto giuramento sulla lunga campagna del settore per screditare e negare le prove che la combustione di combustibili fossili ha guidato il riscaldamento globale”.
Uno dei principali critici dell’industria petrolifera dietro l’audizione del comitato di sorveglianza della Camera, il rappresentante Ro Khanna, ha affermato che la testimonianza dei dirigenti ha il potenziale per essere significativa quanto l’udienza del Congresso del 1994 in cui i capi delle grandi compagnie del tabacco si sono confrontati con la domanda se sapessero che la nicotina crea dipendenza. Che sia un momento altrettanto storico?
Emissioni
Intanto, alla vigilia della Cop26 sul clima, un’analisi di Bloomberg riportata dal Fatto Quotidiano mostra il ruolo sempre più determinante della Cina, con le sue grandi aziende statali, nel computo delle emissioni mondiali. “In un solo anno – si legge – Pechino è stata in grado di produrre la stessa quantità di Stati Uniti, India, Russia e Giappone messi insieme”. 13 miliardi di tonnellate di anidride carbonica nel 2019 (il triplo rispetto al 2001), contro i 6,6 miliardi degli Usa, i circa 6 miliardi dell’intera Europa, i 2,2 miliardi dell’India.
Certo, questo il rapporto non lo evidenzia, ma le cose cambiano se le emissioni vengono soppesate sul numero di abitanti e ancor di più sui consumi. In quel caso sono ancora gli Stati Uniti a fare la parte del leone. Tornando alla Cina e alla nostra analisi, colpisce il ruolo centrale che hanno le grosse aziende di stato. L’enorme macchina produttiva cinese poggia su una necessità mostruosa di energia e materie prime, che il paese produce ancora oggi facendo ampio ricorso al carbone.
“Lo scorso anno China Baowu, leader mondiale nel settore dell’acciaio, ha riversato nell’atmosfera più CO2 del Pakistan: 211 milioni di tonnellate. Il gigante petrolifero Sinopec Group – con la sussidiaria China Petroleum & Chemical – contribuisce al riscaldamento globale più del Canada. E se fosse uno Stato, sarebbe l’11° al mondo per contributo di CO2. All’intero settore cinese dell’edilizia sono riconducibili quasi 4 miliardi di tonnellate. L’azienda automobilista Saic Motor Corp emette ogni anno 158 milioni di tonnellate, l’equivalente dell’Argentina. Mentre le 317 tonnellate di Huaneng Power Int, specializzata nell’elettrica, superano quelle di tutto il Regno Unito. E questi sono solo alcuni esempi”.
Questi dati e soprattutto il trend in cui sono inseriti cozzano con la presunta volontà di Pechino di raggiungere la neutralità climatica entro il 2060, con i primi segnali importanti che dovrebbero arrivare entro il 2025.
RAEE e CCS
Cosa sono queste sigle? La prima sta per Rifiuti di Apparecchiature Elettroniche e Elettriche. Sono i rifiuti sempre più abbondanti composti dai nostri smartphone rotti, pc, tablet, caricabatterie, cuffie, lettori mp3 e così via. Ne parliamo perché un articolo di Focus illustra una nuova tecnologia che sarebbe in grado di riciclare i metalli presenti all’interno di questi rifiuti con un impiego piuttosto basso di energia.
La seconda sta invece per Carbon Capture e Storage, ovvero cattura e stoccaggio del carbonio, che si configura sempre più come una delle tante chimere nella lotta ai cambiamenti climatici. CCS è un nome generico che racchiude un insieme di tecniche per rimuovere CO2 dall’atmosfera e stoccare il carbonio da qualche altra parte (spesso nel sottosuolo). La CCS piace molto alle aziende e ai governi perché porta con sé una promessa succulenta: poter continuare a fare tutto all’incirca come adesso e limitarsi a togliere l’anidride carbonica dall’atmosfera una volta emessa.
Peccato che… non funzioni! Sono sempre di più gli studi che mostrano come l’intero processo di rimozione e stoccaggio della CO2 non stia in piedi dal punto di vista energetico.
Negli ultimi mesi WWF Italia ha commissionato uno studio al think tank indipendente sul clima ECCO, pubblicato pochi giorni fa, da cui emerge nuovamente come la CCS non rappresenti un’opzione significativa nella strategia di mitigazione dei cambiamenti climatici e in quella del processo di decarbonizzazione che deve rispettare le quantità e i tempi richiesti dall’Accordo di Parigi. La CCS ha un’incidenza irrisoria rispetto al fabbisogno di riduzione delle emissioni e oggi i progetti realizzati in Italia e all’estero mostrano la sua inefficienza anche economica.
Ancora sui prezzi (e non solo)
Già, torniamo a parlare del caro prezzi, come di consueto da tre settimane a questa parte. Credo che dovrete abituarvici, ne parleremo spesso d’ora in avanti.
Stavolta tocca a Coldiretti lanciare l’allarme con un comunicato stampa che fa seguito al rapporto Codacons secondo il quale le prossime feste rischiano di essere le più “salate” degli ultimi anni sul fronte di prezzi e tariffe e potrebbero costare agli italiani, a parità di consumi rispetto al periodo pre-pandemia (2019), quasi 1,4 miliardi di euro in più.
Si legge nel comunicato stampa di Coldiretti: “Con il rincaro dei costi energetici che si trasferisce sui costi di produzione nella filiera agroalimentare come quello per gli imballaggi, a Natale si pagherà più la bottiglia che il pomodoro in essa contenuto”.
Il boom delle quotazioni per i prodotti energetici e le materie prime si riflette sui costi di produzione del cibo, ma anche su quelli di confezionamento, dalla plastica per i vasi dei fiori all’acciaio per i barattoli, dal vetro per i vasetti fino al legno per i pallet da trasporti e alla carta per le etichette dei prodotti che incidono su diverse filiere, dalle confezioni di latte, alle bottiglie per olio, succhi e passate, alle retine per gli agrumi ai barattoli smaltati per i legumi.
Il risultato è che, ad esempio, in una bottiglia di passata di pomodoro da 700 ml in vendita mediamente a 1,3 euro oltre la metà del valore (53%), secondo la Coldiretti, è il margine della distribuzione commerciale con le promozioni, il 18% sono i costi di produzione industriali, il 10% è il costo della bottiglia, l’8% è il valore riconosciuto al pomodoro, il 6% ai trasporti, il 3% al tappo e all’etichetta e il 2% per la pubblicità.
Il rapporto non lo dice, ma personalmente ci vedo anche una grande opportunità: quella di abbandonare il sistema insostenibile (ormai anche a livello economico) degli imballaggi monouso e implementare sistemi cauzionali.
Virus respiratorio nei neonati
Da qualche giorno circola la notizia di una epidemia di virus respiratorio sinciziale (Rsv) che sta colpendo migliaia di bambini molto piccoli in tutto il paese con reparti pediatrici e terapie intensive degli ospedali strapieni di neonati con bronchioliti e polmoniti causate dal virus.
Al di là dei toni sensazionalistici con cui viene spesso riportata la notizia, c’è un aspetto della stessa che si legge un po’ fra le righe, ma che ci dice qualcosa di molto importante. Il virus non è niente di nuovo e circola fra gli esseri umani da sempre. Come mai quindi proprio quest’anno ha una forma particolarmente grave?
Lo spiega a Adnkronos Salute Fabio Midulla, presidente della Società italiana per le malattie respiratorie infantili (Simri): “I neonati sono spesso protetti dagli anticorpi materni che si ‘trasmettono’ attraverso la placenta. Questa volta però non è stato così e l’epidemia che solitamente arriva a dicembre-gennaio è scoppiata con 2 mesi di anticipo. Ce lo aspettavamo perché per un anno e mezzo il virus non ha circolato grazie alle misure anti-Covid (lavaggio delle mani, mascherine e distanziamento sociale).
Ma non appena queste misure sono state allentate, i fratellini più grandi sono tornati all’asilo o a scuola e con una popolazione senza anticorpi il virus ha cominciato a circolare, subito e in anticipo rispetto al solito, e sta dando forme gravi nei piccolissimi”.
In pratica siamo di fronte al primo effetto collaterale imprevisto delle misure di isolamento e prevenzione legate all’emergenza Covid: nell’ultimo anno e mezzo molti virus e batteri hanno smesso di circolare fra gli umani (o hanno circolato molto più lentamente) e adesso si trovano di fronte sistemi immunitari meno preparati a contrastarli e hanno campo libero. Taleb definisce il nostro sistema immunitario “antifragile”: si costruisce e si rafforza in conseguenza di piccoli shock, mentre in assenza di questi stimoli resta debole e inadeguato.
Questo significa che lockdown e mascherine siano sempre sbagliate e non avremmo dovuto farvi ricorso? Non proprio. Ma di certo dobbiamo tenere conto di questi effetti indiretti quando andiamo a stabilire l’opportunità o la frequenza con cui introduciamo certe norme. Ricordiamoci che i sistemi complessi (come gli ecosistemi e le società umane) sono controintuitivi e vanno maneggiati con cautela: non possiamo mai avere il pieno controllo sulle conseguenze delle nostre azioni!
Ddl Zan
Tiene banco anche il voto di questo mercoledì del Senato che potrebbe aver affossato il ddl Zan, il disegno di legge contro le discriminazioni di ogni genere. “Il Senato – spiega il Post – ha votato a favore di una richiesta presentata da Lega e Fratelli d’Italia che, attraverso un procedimento parlamentare noto come ‘non passaggio all’esame degli articoli’, ha accantonato il voto sulla legge, il cui iter è stato bloccato. Secondo il Partito Democratico e gli altri promotori della legge, questo passaggio ha compromesso di fatto l’approvazione della legge, affossandola definitivamente”.
Sempre il Post, il giorno seguente alla votazione, prova a fare i conti e a capire cosa non ha funzionato. Il centro-sinistra pensava di avere i numeri in tasca per far approvare la legge, ma qualcosa è andato storto. Conti alla mano, a far passare la cosiddetta “tagliola” devono essere stati anche dei franchi tirtori provenienti dalle fila del centro sinistra o del Movimento 5 Stelle. Ciò è stato favorito dal voto che si è tenuto a scrutinio segreto, su richiesta di Lega e Fratelli d’Italia, che sapevano che in questo modo avrebbero avuto più possibilità di ottenere una vittoria.
Ora che il Senato ha accantonato la discussione sul ddl Zan dovranno passare sei mesi prima che la stessa aula discuta di nuovo la legge. Ma in molti la considerano un progetto ormai accantonato.
E anche per questa settimana è tutto, noi ci vediamo settimana prossima con la seconda stagione di Io Non Mi Rassegno! E ricordatevi: chi si rassegna… è perduto!
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