Green pass obbligatorio: l’Italia è in fermento – Aspettando Io Non Mi Rassegno #3
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Il green pass diventa obbligatorio per molte categorie di lavoratori
Oggi è il giorno del Green Pass obbligatorio. La contestata disposizione del governo Draghi che obbliga i lavoratori a esibire sul luogo di lavoro il lasciapassare vaccinale entra ufficialmente in vigore fra mille polemiche, proteste e scioperi. Scioperi che potrebbero mettere in crisi la già fragile (lo vedremo dopo!) catena della distribuzione e della logistica.
Le prime notizie arrivano infatti dai grandi porti italiani: a Trieste, dove la situazione si è già scaldata nei giorni scorsi, non sono stati posti blocchi ma l’afflusso delle merci ha rallentato comunque molto per via della grande mobilitazione che ha coinvolto migliaia di persone. La situazione è simile a Genova, anche se con meno ripercussioni sulle attività portuali, mentre a Venezia sembra che per ora le operazioni procedano regolarmente.
Anche nelle scuole rischiano di esserci ripercussioni considerevoli per le famiglie e gli utenti: se da un lato – a livello nazionale – la mobilitazione sembra meno intensa e massiccia rispetto al settore della logistica, anche in virtù di un elevato numero di vaccinati fra il personale docente, dall’altro vanno prese in considerazione anche le categorie di lavoratori di supporto, i servizi integrativi, di trasporto, di mensa e così via, che rischiano di compromettere il regolare svolgimento delle lezioni.
Già questa mattina, sono diverse le città italiane – a partire dalla Capitale – in cui si registrano le prime concentrazioni spontanee di protestanti. In questa sede non ci soffermiamo oltre sul tema, che è complesso da trattare in poche righe per via delle mille implicazioni (oltre che sanitarie, sociali, culturali, economiche), ma ne parleremo meglio nei prossimi giorni qui su Italia che Cambia!
I prezzi salgono (e continueranno a farlo)
Perché diavolo i prezzi di molti beni stanno continuando a salire? Dai computer, all’energia, ai carburanti, i prezzi di molti oggetti e materie prime stanno salendo alle stelle. Il motivo ce lo spiega Umair Haque, economista e scrittore, in un illuminante articolo sul suo blog su Medium. Spoiler alert: non vi piacerà.
Haque porta alcuni esempi per spiegare come l’aumento dei prezzi sia in ultima istanza collegato con la crisi ecologica e climatica. I microchip, ad esempio, hanno subito un crollo nella produzione quando i tre principali centri di produzione mondiali sono andati incontro rispettivamente ad un incendio devastante (in Giappone), a una terribile tempesta di neve (in Texas) e alla peggiore siccità dell’ultimo mezzo secolo (a Taiwan). Tutti eventi collegati ai cambiamenti climatici. Stesso discorso vale per la produzione di acciaio, vetro e cemento, su cui si basa la nostra civiltà industriale, che ancora oggi fa affidamento per l’80% su combustibili fossili.
Per anni, decenni, secoli (a partire dalla rivoluzione industriale) spiega Haque, abbiamo esternalizzato i costi ambientali e sociali delle nostre società. I costi di ecosistemi sempre più fragili, estinzioni di massa, oceani pieni di plastica, corsi d’acqua inquinati e aria irrespirabile. Li abbiamo esternalizzati verso le future generazioni. Solo che nel frattempo le future generazioni sono arrivate: siamo noi.
La conclusione? I prezzi continueranno a salire e salire per i prossimi anni, decenni. Sarà forse la più grande inflazione della storia, uno dei principali shock economici che il mondo abbia conosciuto. E continueranno a salire finché non avremo reinternalizzato tutti i costi, attuato una completa riconversione ecologica (vera!) di tutte le economie mondiali e permesso, almeno in parte, agli ecosistemi degradati di rigenerarsi.
Un compito non da poco. Non lo sarebbe, di per sé, riconvertire le economie mondiali. Aggiungeteci che dovremo farlo mentre il sistema attuale collassa e nel mentre dovremo anche preoccuparci di favorire il ripristino degli ecosistemi.
Record di dimissioni dal lavoro
Che il sistema scricchiola ce ne accorgiamo anche da altri aspetti. Secondo un’analisi di Microsoft, riporta il Fatto Quotidiano, addirittura il 40% della forza lavoro globale starebbe pensando di dimettersi entro l’anno. Un fenomeno di portata enorme, che viene generalmente imputato a un disturbo post traumatico da stress dovuto alla pandemia. Ma sembra una lettura un po’ troppo semplicistica.
La mia sensazione, approfondendo anche quanto riportato dall’articolo, è che ciò sia almeno in parte il frutto di sensazioni, comprensioni, elaborazioni maturate durante il periodo di quarantena. Vi stavate chiedendo che fine avessero fatto tutte quelle scoperte, illuminazioni, ripensamenti sulla propria vita che ognuno raccontava di aver provato durante il lockdown? Eccole qui.
Una minimum tax globale per le multinazionali
La domanda sorge adesso spontanea. Chi finanzierà questo enorme processo di riconversione ecologica? Il senso comune vorrebbe che a pagare siano coloro che dalla devastazione dell’ambiente hanno tratto maggiori profitti. Un nome su tutti? Le multinazionali. E una notizia di questi giorni sembrerebbe andare in quella direzione. Per la prima volta i paesi del mondo si sono accordati per applicare un tasso di imposizione minimo del 15% alle aziende multinazionali a partire dal 2023. L’intesa è arrivata dopo anni di intensi negoziati, grazie all’adesione di Irlanda, Estonia e Ungheria, che per lungo tempo si erano opposte.
In molti hanno parlato di momento storico, come ad esempio la Presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen, che ha aggiunto, riporta La Stampa, che «è un importante passo avanti per rendere più equo il nostro sistema fiscale globale».
Tuttavia diverse voci si dicono insoddisfatte. Come mai? La Global Alliance for Tax Justice (GATJ), che da anni porta avanti una sua proposta per una tassa globale, ne spiega alcuni motivi. Innanzitutto il “luogo” in cui è stato siglato l’accordo è da molti considerato inadeguato: la proposta è stata di fatto portata avanti dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) che include solo i 38 paesi con le maggiori economie del mondo. Per dare all’accordo maggiore legittimità l’Ocse ha creato un Framework inclusivo, una sorta di consiglio allargato, che include 140 paesi. Tuttavia secondo la GATJ tutto il processo sarebbe stato ben poco democratico, con i paesi ricchi che avrebbero dettato le condizioni e gli altri che si sono ritrovati ad accettarle, con accordi a porte chiuse e ricatti più o meno velati dei paesi più ricchi nei confronti delle economie più piccole.
Le condizioni, va da sé, privilegerebbero soprattutto i paesi ricchi, rafforzando i diritti di tassazione dei paesi in cui le multinazionali hanno la propria sede centrale sui profitti internazionali.
La tassa è anche considerata troppo bassa: il 15% è di gran lunga inferiore al tasso medio dell’imposta sul reddito delle società nel mondo, che è di circa il 25%, e si teme che la legge possa avere un effetto opposto, ovvero di un adeguamento al ribasso dei paesi che hanno tassazioni più alte. Inoltre riguarda solo un centinaio di grandi aziende, fra cui i colossi del web.
Insomma, si tratta di un accordo che non va alla radice del problema e probabilmente non migliora di molto la situazione. Meglio di niente? Probabilmente sì. Nel frattempo la GATJ rilancia con la sua proposta di un accordo veramente equo da sviluppare in seno alle Nazioni unite. Staremo a vedere.
La Cina continua a puntare sul carbone
Di fronte al tracollo si può reagire in tanti modi. Quello più semplice e miope è insistere sugli stessi meccanismi che lo hanno causato, aumentandone l’intensità, sperando di restare a galla un poco in più.
E’ ciò che sembra intenzionata a fare la Cina, perlomeno nell’immediato futuro. Riporta il Fatto Quotidiano che di fronte alla crisi energetica e all’aumento del prezzo del petrolio (ai massimi dal 2014 e ormai secondo molti giunto al famigerato picco) «a 72 miniere di carbone, situate per lo più in Mongolia, è stata chiesta una produzione aggiuntiva di 100 milioni di tonnellate».
Nonostante gli impegni presi nei recenti summit sul clima, e l’obiettivo dichiarato di raggiungere la neutralità climatica entro il 2060, la Cina rimane fortemente dipendente dal carbone, da cui deriva circa la metà dell’elettricità che produce. Lo scorso anno ne ha estratto quasi 4miliardi di tonnellate.
Sistemi cauzionali
Qualcosa di interessante potrebbe invece muoversi in Europa sul fronte dei rifiuti. Leggiamo sul sito dei Comuni Virtuosi che Natural Mineral Waters Europe (NMWE), UNESDA Soft Drinks Europe e Zero Waste Europe hanno chiesto con un comunicato congiutno all’Unione europea di facilitare la transizione dell’industria delle bevande verso la circolarità, sviluppando un quadro giuridico per la creazione di efficienti sistemi di deposito cauzionale per gli imballaggi delle bevande.
Se l’Ue risponderà coerentemente, potrebbe essere un passaggio molto importante verso sistemi che eliminano a monte la produzione di rifiuti.
Un Nobel per la decrescita?
Qualcosa si muove anche a livello culturale. Il fresco premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, profondo conoscitore dei sistemi complessi (ci ha vinto un Nobel!) sa bene che la crescita infinita del PIL è incompatibile con la stabilità e la salute degli ecosistemi. E lo ha detto chiaro e tondo qualche giorno fa parlando a una manifestazione pre-Cop 26: «Permettetemi di aggiungere una considerazione di natura economica», ha detto. «Il Prodotto interno lordo dei singoli Paesi sta alla base delle decisioni politiche, e la missione dei governi sembra essere di aumentare il Pil il più possibile, obiettivo che è in profondo contrasto con l’arresto del cambiamento climatico».
Le sue affermazioni vanno a braccetto con le recenti pubblicazioni dell’Agenzia europea dell’ambiente (EEA), secondo cui il completo disaccoppiamento tra crescita economica e consumo di risorse non sembra essere possibile e serve un profondo ripensamento dei nostri modelli economici.
Ovviamente le affermazioni di Parisi hanno mandato nel panico i media mainstream, intenti a osannarlo per il suo riconoscimento e colti clamorosamente in contropiede. C’è chi, come la Repubblica, ha optato per evitare l’argomento e celebrare la sua «grande passione per la salsa e il sirtaki», e chi si è scagliato contro le parole di Parisi come il Sussidiario, che gli ricorda che i soldi investiti nella ricerca scientifica, che gli hanno fruttato un Nobel, arrivano proprio dalla crescita del PIL.
A dimostrazione che, come messo a fuoco dalla stessa EEA, la crescita ancora è culturalmente, politicamente e istituzionalmente radicata e metterla in discussione è perlopiù un tabù. Che per fortuna inizia a traballare.
L’accesso a un ambiente sano è un diritto fondamentale
Infine l’Onu ci mette del suo e stabilisce che l’accesso a un ambiente sano e pulito è un diritto umano fondamentale. Lo fa approvando un testo, proposto da Costa Rica, Maldive, Marocco, Slovenia e Svizzera, con 43 voti favorevoli e 4 astenuti da Russia, India, Cina e Giappone. Secondo David Boyd, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani e l’ambiente, si tratta di «una svolta storica». L’Oms stima che il 24,3% del totale mondiale dei decessi sia dovuto all’inquinamento atmosferico e all’esposizione a sostanze chimiche.
E anche per questa settimana è tutto, noi ci aggiorniamo venerdì prossimo con una nuova puntata di Aspettando Io Non Mi Rassegno. E ricordatevi: chi si rassegna… è perduto!
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