Paolo Rumiz: i viaggi e la riscoperta dei monti naviganti
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«Dell’Appennino sapevo davvero poco, territori sovrastati da monti senza grandi pilastri, a differenza delle Alpi. Tutte le volte che lo sorvolavo in aereo mi rendevo conto che non riuscivo a distinguere nulla ed è così che ho deciso di dedicarmi a esso in modo profondo partendo da zero».
Con queste parole Paolo Rumiz, giornalista, scrittore e viaggiatore italiano, racconta il suo avvicinamento a quella che lui stesso definisce “la spina dorsale dell’Italia”. Armato di una mappa e di tanto amore per la scoperta e il viaggio, ha compiuto nel 2006 un’avventura della durata di circa un mese che lo ha portato a esplorare la catena montuosa degli Appennini da nord a sud. Lungo i tremila chilometri percorsi è riuscito a realizzare un collage di luoghi, persone e incontri indimenticabili, che ha racchiuso nel suo libro La leggenda dei monti naviganti.
«Ricordo la decisione dannata di fare il viaggio con una utilitaria vecchia di più di mezzo secolo – ci racconta Paolo Rumiz – che è diventata essa stessa la protagonista. Ovunque andavo l’auto suscitava interesse e faceva avvicinare le persone senza che io dovessi andare da loro a tormentarle con domande. Erano loro stessi che venivano a raccontarsi. È stato un viaggio interminabile, nel senso che ho toccato con mano la lunghezza dell’Appennino, un luogo meraviglioso, che per me è stato fin da subito un grande amore e tuttora lo è».
L’incontro tra Alessandro Scillitani, regista del documentario Ritorno sui monti naviganti, e Paolo Rumiz, voce narrante del film, è avvenuto nel 2010. Alessandro aveva il desiderio di filmare i viaggi intrapresi da Paolo, di ridare loro vita e riproporli sul grande schermo. Ed è così che ha preso forma l’opera sopracitata, già conclusa prima dell’arrivo del Covid ma che verrà proiettata nei mesi a venire.
«Io ho partecipato solo ad alcune tappe di questo viaggio quando bisognava mettere in campo la Topolino, Nerina, l’auto messa a disposizione dal proprietario per entrambi i viaggi, sia quello del 2006 sia quello più recente con Alessandro». È così che Paolo Rumiz sottolinea la straordinaria importanza di un’autovettura che scandisce i vari incontri che costellano il documentario, mettendo in luce come un semplice mezzo può trasformarsi in qualcosa che va oltre il semplice oggetto, riuscendo ad acquisire una sorta di anima, specialmente per il guidatore.
«Devo dire che quando sono risalito su quella macchina – riprende Paolo – e ho rifatto quei tornanti ho provato un brivido che avevo dimenticato. Era qualcosa di unico. Quel tipo di automobile, così basica, che richiede una fatica fisica, diventa una protuberanza del tuo corpo. Ed essendo anche un’auto così semplice era come se essa stessa aderisse al terreno, come la penna di un topografo che aderisce alle isoipse, alle linee altimetriche, con una grande fedeltà».
«Rifare quei viaggi con un’altra vettura sarebbe stato per me deludente, dunque l’altro mezzo con cui sarei riuscito a provare qualcosa di simile sarebbe stato la bicicletta, che prevede anch’essa lo sforzo della conquista e la bellezza dello scollinamento, il piacere della fatica, della sete e della fame, che vengono magnificamente soddisfatte in soste memorabili, in posti fuorimano dove ti offrono cibo introvabile altrove».
«Dopo aver realizzato nel 2006 questo intenso viaggio – racconta Paolo Rumiz – ne ho fatti altri sempre in queste zone dell’Appennino negli anni a seguire. Con Alessandro non abbiamo solo percorso tappe in cui ero già stato, ma abbiamo ispezionato anche zone nuove. Il tema principale era raccontare queste terre, usando la Topolino come filo narrativo».
«Molti degli incontri che ho fatto all’epoca erano casuali, quindi è stato difficile ritrovare gli stessi volti. Alcuni erano morti», aggiunge Rumiz. Persone diverse, facce non conosciute, territori non noti, ma tutto è rimasto come un tempo: le strade mai rettilinee ma con continue curve, paesi in preda allo spopolamento, luoghi stupendi che troppo poco vengono valorizzati.
I ricordi di Paolo continuano, con delle considerazioni in merito al presente dei popoli che abitano queste terre: «Camminavo tra popolazioni che avevano un forte complesso di inferiorità e sentivano lontano lo Stato, luoghi in cui non è facile vivere, specialmente adesso dopo i terremoti. Sono in pochi a percepire questa loro identità, questa unicità».
«Ci sono ancora alcune persone colte, una rete di piccoli intellettuali di paese che conservano la memoria, ma a tutto questo manca un narratore d’insieme. L’Appennino merita una sinfonia, un qualcosa di enorme a livello narrativo, purtroppo mai realizzato. Il mio viaggio è stato un tentativo inconsapevole, un primo approccio a questa identità plurale, multiforme, labirintica eppure segnata da un’unica grande spina dorsale. È difficile trovare un luogo così denso di storia e riconoscibile come questo».
«La sensazione profonda del viaggio appenninico – continua Paolo Rumiz – è dunque quella di aver raggiunto l’unicità dell’identità italiana. Questo camminare sul filo di uno spartiacque da cui senza grosse difficoltà si riescono a vedere due mari, in certi casi, andando verso sud anche tre – mi riferisco allo Ionio –, è qualcosa che da nessun’altra parte può essere vissuta. Questa è l’identità peninsulare dell’Italia e un fatto su cui si riflette troppo poco».
«L’appennino continua a svuotarsi, ci sono anche dei ritorni ma la tendenza generale è quella dello scivolamento verso il mare, il che rappresenta una situazione tragica. Anche il fatto che la ricostruzione di molti paesi colpiti da terremoti non sia ancora avvenuta è un fattore molto negativo. È come se la politica stesse facendo di tutto per rendere difficile la vita a questi uomini».
Sono queste le parole finali di Paolo Rumiz, che ci mostra quanto meravigliosi e ricchi sono i territori appenninici e quanto essi siano però allo stesso tempo così poco conosciuti, bistrattati e non valorizzati. Un valore che tante volte non viene dato nemmeno dall’interno, nella tiepida speranza di un futuro ritorno e ripopolamento di alcune delle zone più belle d’Italia.
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