Nicola: “In Africa ho scoperto che la bici è il mezzo migliore per esplorare un territorio”
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Savona - Nicola è modenese, ma lavora come architetto a Savona, in ufficio in coworking sul mare e nel weekend si “rifugia” nei boschi insieme alla sua bici. Proprio lì in mezzo, tra il lavoro e la passione per l’outdoor, scatta un viscerale amore per la mountain-bike.
Nel 2003 si unisce a Medici Senza Frontiere e si trasferisce in Africa, dove si occupa di Water&Sanitation. Oggi vive a Stella, nel parco del Beigua, e oltre a lasciarsi affascinare dai sentieri che lo attraversano, decide anche di scrivere un libro sul tema, una guida per valorizzare un territorio che “ha tanto da dire”, e lo fa attraverso la bici, che secondo lui è lo strumento perfetto per esplorarlo.
Nicola, raccontaci: quando e in che modo la bici ha iniziato a far parte della tua vita quotidiana e lavorativa?
Tra il 2003 e il 2008 ho lavorato per Medici Senza Frontiere. Sono arrivato in Sierra Leone dopo la guerra per occuparmi dei campi profughi. Avevo il compito di progettare e costruire seicento latrine per il campo e seguire lo stato di avanzamento dei lavori. Ben presto mi sono reso conto che a piedi ci voleva troppo tempo per controllarle una per una così, dopo aver trovato una mountain-bike usata al mercato, l’ho acquistata senza pensarci troppo. Da subito ho iniziato a girare in bicicletta per i campi e ho realizzato che il lavoro su due ruote era decisamente più semplice.
La bici poi ha contribuito, in un certo senso, a costruire una vicinanza con le persone del luogo, permettendomi di entrare di più in relazione con il tessuto del campo, soprattutto con i bambini e la parte più fragile della popolazione. Dovendo costruire oggetti vicini alla sensibilità delle persone, questo approccio “amichevole”, coadiuvato dalle due ruote, è stato essenziale per abbassare le barriere di un popolo proveniente da un periodo di guerra, quindi piuttosto timoroso e inquieto. Questo mi ha toccato molto, perché la bici è diventata non solo un mezzo agevole per spostarsi da un luogo all’altro, ma anche un valido strumento di lavoro. Pedalare è stato anche un mio strumento di benessere mentale, perché era un’attività fisica “pulita” che svolgevo in un contesto piuttosto stressante.
Quindi hai scoperto la bellezza di pedalare mentre eri in Africa?
In realtà no, la bicicletta apparteneva già al mio background… pedalo da quando avevo tre anni!
Come sei arrivato da Modena fino in Liguria (passando per l’Africa)?
Dopo l’esperienza con MSF, nel 2008 sono tornato in Italia. Ho frequentato un master sulla costruzione di imbarcazioni e ho iniziato a lavorare in un cantiere a Varazze, in cui sono stato assunto dopo un periodo di tirocinio. Una cugina di mio nonno aveva una casa a Stella, quindi venire in Liguria è stata la scelta più semplice dal punto di vista logistico. E me ne sono innamorato.
E poi?
In quel periodo progettavamo barche che consumano circa 1000 litri di benzina all’ora, mentre a Stella, dove vivo, stavano costruendo pale eoliche e questa cosa mi faceva sognare. Anni dopo sono riuscito a lavorare nell’ambito dell’eolico. Anche in quel caso mi sono reso conto che arrivare sul cantiere e raggiungere queste aree remote, lontane dalle strade asfaltate, senza fuoristrada non era possibile. E così, per attraversare i boschi per installare i cavi, ho optato per una bici elettrica.
Nel frattempo hai anche pubblicato una guida di sentieri in bicicletta nella zona di Finale Ligure: com’è nata l’idea?
Il territorio di Finale Ligure è molto rinomato per le falesie, per il trekking, ma anche per il cicloturismo. Quando mi sono trasferito in Liguria mi sono subito reso conto che questa è una terra molto bella, ma anche chiusa e difficile da scoprire. Pedalando ho avuto modo di toccare con mano la particolarità di tanti piccoli produttori, sia di cibo che di artigianato, che non amano farsi pubblicità e anche in questo caso la bici è un’ottima chiave di lettura per far emergere questo “underground” altrimenti difficilmente scopribile.
Come si è sviluppato il progetto del libro?
La stesura è durata un paio d’anni. Questo libro è stato un modo di rendere omaggio alla terra che mi ha accolto e mi sta tuttora ospitando. In questa zona ci sono tantissime realtà interessanti, ma molto difficili da conoscere, perché il ligure è timido e qui si tende a tenere le “chicche” un po’ nascoste.
Da una parte, quindi, è stato un’occasione per raccontare un territorio, dall’altra un modo di far conoscere quello che c’è qui oltre alla bici, come l’archeologia, i castelli che incontri sulla strada, il tabernacolo antico o la vecchia villa, tutti elementi che permettono di coniugare l’aspetto sportivo a quello culturale. La guida è stata pubblicata da Versante Sud edizioni, che l’ha tradotta anche in inglese e in tedesco e ricevo richieste di consigli da parte di ragazzi stranieri che vengono qui e confermano i miei gusti, dandomi costantemente un riscontro concreto di quello che ho scritto. Oltre al finalese, il libro intende poi valorizzare anche un altro territorio che merita di essere conosciuto, quello del parco del Beigua.
Cosa bolle in pentola per il futuro?
Una seconda edizione della guida, a cui sto pensando da un po’ di tempo. La mia intenzione è quella di approfondire ulteriormente un aspetto fondamentale che è quello del “vivere il territorio”. Per esempio: dopo la gita in bici, dove vado a bermi una birra o a fare merenda? Mi piace l’idea di dare suggerimenti pratici anche di questo genere. Nell’area di Finale Ligure, al di là dell’aspetto atletico, è possibile coniugare alle due ruote anche la dimensione famigliare. Uno degli obiettivi della guida è proprio segnalare itinerari pensati per un pubblico meno tecnico, quindi più soft e con poco dislivello, indicando anche le eccellenze locali in ambito agroalimentare, come produttori di vino o di birra artigianale, ma anche la chiesetta gotica che si incontra lungo il percorso. Un modo, quindi, per espandere la dimensione sportiva a tutti i membri della famiglia.
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