Benedetta Altichieri: storia di una relazione tra culture differenti – Amore che Cambia #11
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Padova, Veneto - Nella penultima tappa veneta del nostro primo viaggio nell’amore e nel sesso che cambia ci imbattiamo in una relazione tra culture differenti. Abbiamo infatti incontrato Benedetta Altichieri, professionista eclettica che – nonostante la sua giovane età – ha cambiato più volte vita, nazione, percorsi spirituali.
Oggi Benedetta è, tra le altre cose, una magnifica mamma single, ma in passato ha vissuto una relazione sentimentale interculturale con un uomo tunisino. La relazione – un matrimonio durato sette anni – non è stata a lieto fine, ma non per i motivi che subito possono saltare alla mente quando si immagina un’unione tra una donna italiana e un uomo tunisino. A dividerli infatti non è stata la religione, ma una serie di motivazioni personali, che non staremo qui a raccontare.
Quello che invece è interessante rilevare è come Benedetta abbia affrontato la relazione con una cultura differente e come di fronte alle difficoltà abbia sempre mantenuto uno spirito costruttivo e assolutamente privo di vittimismo. Anche quando per molti di noi sarebbe stato comprensibile un approccio completamente diverso.
Cominciamo dalla fine. Benedetta vive a Padova, è madre di due splendidi bambini italo-tunisini e ha alle spalle una storia spirituale variegata che l’ha condotta dall’ateismo alla conversione all’Islam, per poi passare a una “devoluzione” che la porta oggi a seguire – e in parte guidare – percorsi di crescita spirituale. Benedetta è sempre stata affascinata dai mondi “diversi” e ci racconta come fin da bambina non capisse come mai le altre persone potessero sentire queste persone con timore. Per lei erano e sono fonte di curiosità e stimolo ad approfondire.
Un matrimonio di amore e di interesse
«Per me era evidente che venissero qui in cerca di nuove strade e nuove esperienze – ci spiega seduta nel suo salotto baciato dal sole – e la trovavo una cosa legittima. Così si crearono i presupposti per un legame con un ragazzo immigrato che si evolse molto rapidamente in un matrimonio per dare una “chance vera” a questa relazione. In realtà – continua Benedetta – non sono mai stata particolarmente affezionata al tema del matrimonio, anzi, la convivenza era per me la formula più adatta al mio sentire, ma poi emersero problemi di natura pratica e burocratica, per cui un po’ inconsciamente e un po’ consciamente ho spinto sull’acceleratore. Sentivo che volevo vivere una storia sana e tranquilla e le condizioni in quel momento non lo permettevano. Lui era sempre molto in ansia per lo status di immigrato ed era tutto molto faticoso. Ho quindi sentito che l’unica soluzione era sposare questa persona, creando un setting normale in cui vivere questa relazione, pur riconoscendo la grande distanza culturale e sociale. E così questa unione partì un po’ di corsa, consapevoli che era anche un po’ irresponsabile da parte mia».
Questa distanza culturale emerse da subito: l’istruzione e il modo di mettere le cose nel contesto erano radicalmente diverse. Benedetta sperava che formalizzando la relazione si attenuasse lo stress del marito e si sanasse questo gap. La sua volontà di andare incontro al suo amato è talmente forte che a un certo punto “sposa” le sue origini e il suo percorso spirituale.
L’iniziazione all’Islam
«Quando ho conosciuto colui che sarebbe diventato mio marito – ci confida – ero fieramente atea. Ho sempre sondato il senso della vita in qualche modo, con l’arte, la filosofia. La religione e la spiritualità erano per me solo vestiti con cui si gioca e si sperimenta all’interno di un’unica grande ricerca sugli esseri umani e sulle loro potenzialità. Ho fatto il mio primo percorso terapeutico a diciassette anni e quindi ho sempre avuto una forte attitudine introspettiva. Il mio partner invece non si faceva grandi domande e viveva le cose come venivano. Aveva un’indole molto sanguigna, un po’ selvaggia, ma questa cosa mi piaceva. Ho quindi deciso di andargli “incontro”».
Così, rima di sposarlo decide di entrare in contatto con la cultura tunisina e in particolare con la religione islamica. Come atea rimane affascinata dal rapporto diretto con il divino e tramite un amico marocchino viene in contatto con il mondo del sufismo. Decide quindi di fare “shahada”, una sorta di conversione all’islam, un rito di iniziazione. Vive questa esperienza come percorso personale, tanto da non comunicarlo al suo futuro marito.
«Volevo che fosse un percorso mio – ci spiega – anche se adesso mi rendo conto che è stato un modo per avvicinarmi a lui e alla sua cultura. Forse anche per essere amata un po’ di più. Ho iniziato un mio percorso di studio, ho letto il Corano e moltissimi altri testi. Sono una sperimentatrice sociale e volevo provare tutto, vivere l’Islam appieno, compresi i 5 momenti di preghiera quotidiana e il velo».
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il contesto locale l’ha accolta molto bene. Benedetta ha avuto tantissimi incontri emozionanti sia nelle moschee locali che per strada. La gente non la guardava con diffidenza per il fatto che portava il velo, ma con curiosità. «Le persone mi “interrogavano” in autobus, per strada; ricordo i sorrisi, ritrovavo quello che il mio cuore emanava. Io non ero in una battaglia contro qualcuno, ma portavo un messaggio significativo per me e trovavo apertura e amici curiosi. Ho permesso a molte persone di vedere questo mondo carico di pregiudizi in modo diverso ed è stato un grande dono per me».
Paradossalmente, chi non si entusiasmò per la scelta di Benedetta fu proprio il marito: «Lo metteva in imbarazzo vedermi con il velo; lui percepisce il mondo come un luogo molto aggressivo e quando uscivamo insieme sentiva gli sguardi delle persone addosso. Era proprio dissonante: voleva una moglie musulmana ma defilata e ha osteggiato molto il mio percorso spirituale».
Un mondo di violenza e l’uscita dal “ruolo” di vittima
«In questo mondo di violenza avevo questi momenti in cui trovavo uno spazio fuori dal teatro della vita e vedevo le cose da prospettive diverse. Questi momenti in cui uscivo dal contesto violento mi hanno salvato», ci confessa a un certo punto Benedetta. È molto schiva e ci tiene tantissimo a non parlar male dell’ex-marito. Non si ritiene una vittima nonostante negli anni abbia subito episodi di violenza verbale e psicologica.
«Ritengo che il rapporto vittima-carnefice sia un gioco di ruolo: c’è qualcuno che sceglie di fare il carnefice e qualcuno che sceglie di fare la vittima. Ovviamente non voglio certo puntare il dito verso chi subisce violenza, ma credo sia fondamentale fare un atto di responsabilità verso noi stessi. Quando mi sono accorta che era un gioco di ruoli – ci spiega – ho percepito il dolore che provava interpretando il ruolo di carnefice e il gioco si è scardinato».
Ecco, come altre volte in questa indagine, ci troviamo a toccare un tema spinoso. Chiediamo a Benedetta di spiegarci meglio questo concetto: «Vi faccio un esempio. Una delle mie grandi paure inconsce era essere accusata di fare cose che non avevo fatto. Quando lui ha iniziato a colpevolizzarmi, in una visione un po’ paranoide del mondo, io anziché allontanarmi ho passato anni a cercare di dimostrare che ero innocente. Mi ritengo colta, consapevole e con tanti strumenti eppure mi ritrovavo come incastrata. Venivo “rimandata” nel mio inconscio. Ho passato anni a provare che ero brava, buona, giusta e a sperare che lui cambiasse cercando di dargli strumenti che non ha mai voluto né usato…».
Il trasloco in Tunisia e il ritorno in Italia
Mentre Benedetta era incinta del secondo figlio, suo marito stava costruendo una casa in Tunisia. In quel momento si sono trovati davanti a un bivio: lei stava terminando un contratto e lui in Italia non aveva lavoro. Decidono quindi di andare a vivere in Tunisia, dalla famiglia di lui. Questa accoglie Benedetta a braccia aperte e nascono rapporti di cuore, che tutt’oggi continuano. «La sua famiglia era dalla mia parte, volevano aiutarmi. Io mi sono detta che andando nel suo Paese dove era ben voluto, si parlava la sua lingua, c’era il suo mondo, tutto sarebbe andato meglio».
«Siamo partiti con un sacco di mobili dell’Ikea caricati su un camion distrutto – prosegue Benedetta –, è stata una scena epica, non avete idea di cosa viaggia sulle navi tunisine… e nonostante questo ci hanno riso in faccia quando ci hanno visto entrare. Farsi ridere in faccia in quel contesto è davvero significativo! Quando siamo arrivati il camion è collassato. Abbiamo approntato una casa bellissima, ma quando sono arrivata là ho scoperto che lui aveva ripreso a bere ed è iniziato un periodo molto pesante». Dopo due anni, tra varie vicende e nonostante un rapporto davvero profondo con la sua famiglia, decide quindi di tornare in Italia, dove trova un lavoro e iscrive i figli alla “scuola senza zaino”.
Una mamma single (e le storie che vogliamo raccontarci)
Nel 2018 inizia quindi la sua esperienza di genitore single. «Quando sono tornata avevo ancora il turbante in testa, ma l’ho tolto quasi subito, aveva fatto il suo servizio, avevo bisogno di integrarlo. Ho conosciuto questa counsellor, Irene, che mi ha aiutato ad aprirmi a percorsi di spiritualità più ampi e piano piano la religione si è trasformata in spiritualità, una spiritualità in cui l’Islam ha una sua fetta. Ho provato e provocato dolore nel fare queste scelte, ma ho sentito che era necessario per me e per i miei figli. Come potevo insegnar loro a essere felici se non lo ero io? A loro spiego che il papà c’è, che è un papà biologico che vuole loro bene – ed è vero – ma che questo papà non è in grado di prendersi cura di loro perché ha difficoltà sue e va quindi preso così come è».
«Sono riuscita – spiega Benedetta sottolineando quanto per lei questo sia importante – a non vivere come dramma l’essere madre single o avere avuto un marito violento. Avrei potuto creare una narrativa nei bambini di questo tipo e li avrei messi in una posizione di risentimento e nel ruolo di vittime. Al contrario, come madre single rivendico che posso farcela. Non sto facendo fatica nonostante sia sola. Vorrei un uomo sano al mio fianco e mi farebbe piacere che i miei figli avessero una figura maschile stabile di riferimento, ma comunque sto bene. Anche i miei figli stanno bene, sono seguiti da una psico-pedagoga e ho imparato ad accettare il fatto che a loro non manca nulla. Il supporto “degli altri” c’è nella misura in cui io permetto a questo supporto di esserci. Ho imparato ad aprire le braccia al supporto degli altri».
Benedetta ha scelto di stare bene
«Nella mia storia c’è questa donna che ha scelto sé stessa, ha scelto di amarsi e onorarsi e ha capito che era l’unico modo di onorare i suoi figli. Un giorno faranno i conti con il loro padre e con me. Sono disponibile a rispondere. Il mio cammino è in crescita, felice e sereno, e a tutte le donne che hanno subito violenza o si trovano in questa condizione monogenitoriale dico: quale storia vi state raccontando e quale volete raccontarvi?».
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