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Ci sono due convinzioni molto radicate – e fra loro collegate – quando parliamo di sostenibilità ambientale e crisi ecologica. La prima è che siamo piuttosto irrilevanti, come individui e piccoli gruppi, di fronte a problemi così enormi come i cambiamenti climatici, le estinzioni di massa, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua. La seconda è che la sostenibilità è una gran seccatura, fatta di rinunce e fatica. Il risultato combinato di queste due credenze è che spesso ci evitiamo la fatica di cambiare con un’alzata di spalle e un laconico “tanto cosa posso farci io?”
E se fosse vero il contrario? Se le nostre azioni fossero in grado di condizionare l’intero sistema ben oltre la nostra immaginazione e il raggiungimento della sostenibilità coincidesse con il punto di massima soddisfazione e felicità personale, salute e persino – sul lungo termine – successo economico? È l’ipotesi portata avanti da Grammenos Mastrojeni – diplomatico, professore universitario e saggista – nel suo nuovo libro “Effetti farfalla”, da poco uscito per Chiarelettere. Lo abbiamo contattato telefonicamente.
Cosa sono questi effetti farfalla di cui parla?
L’effetto farfalla è uno dei capisaldi della teoria del caos, che dice che una mutazione anche infinitesimale nello stato iniziale di un sistema può portare alla mutazione dell’intero sistema. Di solito vengono evocati come origini imprevedibili delle catastrofi, ma il concetto è facilmente estendibile. La realtà è che noi apparteniamo a un sistema in equilibrio che, se assecondato, può amplificare moltissimo l’impatto di gesti di tutti i tipi. Inoltre oggi iniziamo a conoscere sufficientemente bene questo sistema complesso che è la Terra per prevedere, almeno in parte, in che direzione vanno questi effetti. E quindi possiamo scegliere di battere le ali nella direzione giusta. Insomma, siamo tutt’altro che irrilevanti come individui, piccoli gruppi, realtà locali: possiamo innescare delle catene di conseguenze che sono molto importanti.
Nel libro descrive spesso il sistema in cui viviamo con l’aggettivo “coerente”. Cosa intende?
È il secondo concetto fondamentale del libro, dopo l’effetto farfalla. Siamo abituati a pensare che fra certi valori a cui teniamo ci sia sempre un trade-off, che uno si realizzi solo a scapito dell’altro. Ma se descriviamo il sistema come una correlazione dinamica fra ambiente, sviluppo, diritti umani e pace, scopriamo che quando facciamo qualcosa di buono in questi settori, si trasmette come una conseguenza costruttiva anche agli altri, autoamplificandosi. E che il solo “prezzo” da pagare nel cercare la sostenibilità in ogni settore è stare meglio noi e far stare meglio gli altri. Il vero benessere è strutturalmente sostenibile e lo è per una ragione scientifica: siccome noi ci siamo co-evoluti con questo sistema, è normale che il massimo del nostro stato psicologico e fisico si raggiunga in armonia con questo sistema.
Può fare un esempio?
Certo. Nel libro sono citati cinque settori che fanno parte della vita quotidiana, nei quali si possono mettere in moto questi effetti: il cibo, il trasporto, il vestiario, la nostra relazione coi rifiuti e l’impresa. Faccio l’esempio del cibo, che è il più classico. Se evito di comprare carne prodotta negli allevamenti intensivi faccio innanzitutto bene a me stesso e alla mia salute, perché mangerò meno carne, ma più locale e di migliore qualità. Quindi sto meglio, sono più sereno, più produttivo al lavoro e così via. Ma innesco anche tanti altri effetti.
Ad esempio contribuisco ad abbassare le tasse. Sembrerà strano quel mercato che si vanta di vendere “un milione di hamburger al minuto” fa parte del meccanismo che crea un paradosso per cui, sebbene il pianeta fornisca già oggi calorie sufficienti a sfamare 10 miliardi di persone, esse sono distribuite in maniera talmente polarizzata che circa due miliardi di persone soffrono di patologie da ipernutrizione e altrettante soffrono la fame. Entrambe queste polarità creano dei costi enormi per i sistemi sociali e fiscali: le persone sovrappeso, con le malattie che ne conseguono, costano agli stati l’equivalente del Pil dell’Italia, mentre coloro che sono in condizione di povertà, fame e insicurezza costano ancora di più, perché danno il via a quelle catene di instabilità che poi bisogna gestire con costosissimi apparati politici e di sicurezza. In altre parole, se solo l’Occidente ricco decidesse di mangiare in maniera corretta tutelando la propria salute, avremo una diminuzione delle tasse di circa un terzo.
Decisamente coerente. Nel libro descrive anche la piramide alimentare, che cos’è?
Già, la famosa piramide elaborata dalla Barilla. Si tratta di una doppia piramide esemplificativa del settore dell’alimentazione, ma che vale in realtà per tutti i settori. Ci mostra che la sostenibilità significa non rinunciare a nulla di ciò che ci fa bene, ci diverte e ci rende la vita più gioiosa. L’ambiente ammette anche il lusso. Quello a cui ci chiede di rinunciare è quel sovrappiù che ci fa male. Per dirla in termini tecnici, se vado oltre il punto più alto della mia curva di utilità marginale nel possesso e godimento di vari beni, mi faccio del male. Quindi il sistema mi chiede semplicemente di starmene sul punto più alto; così facendo libero risorse che a me farebbero male ma che per gli altri sono necessarie e pongo tutti quanti sul punto più alto. Ecco che una scelta di benessere personale diventa una scelta di sostenibilità, ma anche una scelta di equità, di giustizia e di pace.
E queste sono solo alcune delle conseguenze: potrei continuare dicendo che se non autorizzo col mio portafoglio gli allevamenti industriali, non autorizzo nemmeno l’enorme catena di trasporti che c’è dietro, quindi il particolato e altre emissioni inquinanti. Non autorizzo le pozze di ammoniaca che ne derivano, né le catene dei mangimi che ci obbligano ad andare a coltivare in terre lontane, a bruciare l’Amazzonia o a togliere la sovranità alimentare alle popolazioni povere, di nuovo costringendo milioni di persone a migrare, con tutti i costi e l’insicurezza che ne deriva.
In altre parole, viviamo in un sistema coerente, che premia la coerenza...
Esatto. E come per l’alimentazione, questa relazione “se fa bene a me fa bene anche all’ambiente” vale per tutti i settori. Anche quello in cui è meno intuitivo, cioè l’economia, che sta scoprendo che la sostenibilità non è una scocciatura che affossa la competitività, ma un’opportunità. L’effetto farfalla fa sì che un unico gesto mandi le sue conseguenze a pioggia su una miriade di settori. Se scegli la qualità al posto della quantità rivitalizzi il commercio e la produzione di prossimità, rivitalizzi le campagne, affranchi l’agricoltura dalla schiavitù dai grandi compratori internazionali – che a sua volta giustifica il caporalato –, contribuisci a redistribuire la popolazione fra le città sovraffollate e le campagne e montagne disabitate. E così via.
Se è tutto così coerente, come siamo finiti a fare cose che vanno nella direzione opposta?
Direi che il motivo principale è la settorializzazione, l’idea che “business is business”, che tutto quello che faccio in una scatola rimanga lì dentro. Una convinzione miope che innesca catene di conseguenze che alla fine tornano indietro distruggendo il business stesso. La settorialità è un errore principalmente occidentale, che ha dato l’illusione di funzionare per un po’ di tempo, seppur a caro prezzo, tipo due guerre mondiali, e che di conseguenza è stato abbracciato anche dall’oriente che storicamente aveva un approccio più olistico. Oggi ci siamo accorti che il prezzo da pagare è troppo alto, e anche il mercato sta cambiando rapidamente rotta.
Il suo è un approccio non ideologico, cosa non sempre si ritrova in chi parla di ecologia. Quali pensa che siano le conseguenze, al contrario, di un approccio ideologico?
Ci sarebbe moltissimo da dire su questo. Purtroppo siamo affezionati a una narrativa tradizionale dell’ecologia, che è disfunzionale. Che ci dice che c’è il popolo buono che è prigioniero di oscuri disegni, di collusioni fra governi e multinazionali. Una storia che ci piace, ma che è deresponsabilizzante. Nella politica, con tutti i suoi difetti, così come nel mercato con tutti i suoi difetti, alla fine il potere ce l’abbiamo noi, con il voto e con la domanda. È bene che iniziamo a pensare che le cose devono partire da noi. Fra l’altro, questa visione dualistica ha portato tanto le imprese quanto agli ambientalisti a pensare che ci sia una contrapposizione tra ambiente e sviluppo. Questa contraddizione, come abbiamo visto, non c’è nel sistema terra, le due cose sono sinergiche, ma spesso pensiamo di dover scegliere fra l’una o l’altro.
C’è un dibattito molto vivo sul tema della crescita economica e anche a livello istituzionale si inizia a far strada il sospetto che si debba andare oltre il paradigma della crescita. A questo proposito, qual è la sua opinione?
Dal mio punto di vista la decrescita è un errore. L’economia verde porta alla crescita, non alla decrescita. Certo, è altrettanto sbagliato considerare la crescita solo con gli elementi inseriti nel Pil. Ma comunque, anche restando sul classico Pil, la transizione ecologica ci porta comunque una crescita economica. Intendo dire che puntando sulla qualità e sulla compatibilità territoriale di un prodotto, si scardina quel meccanismo che ha portato l’economia a stagnare e si fa ripartire anche la crescita economica, seppure in una direzione differente.
Un’opinione piuttosto diversa rispetto a quelle che siamo abituati a ospitare su Italia che Cambia. Qual è a suo avviso questa direzione di crescita differente?
Oggi ci sono tante produzioni di larga scala massificate, che sono realizzate tramite l’automazione, ovvero con le macchine, o con la trasformazione degli esseri umani in macchine. Questo sistema dà l’illusione transitoria di grossi guadagni per qualcuno, ma in realtà uccide il mercato, perché concentra tutti i guadagni nelle mani di pochi, estromettendo gli altri. L’economia verde invece crea un prodotto calibrato su esigenze più fini, che sono quelle della persona e del territorio. Quindi richiede l’input di manodopera qualificata, dal sapere del genio universitario a quello dell’ultimo artigiano che sa fare i muretti a secco. Questo sapere, ovviamente, lo devi pagare. Il risultato è una redistribuzione del reddito e un mercato che differenzia la domanda: non più beni massificati, bottigliette di plastica che inquinano il pianeta, 50 maglioni all’anno quasi usa e getta, ma ad esempio di un unico maglione fatto come si deve, come le giacche di mio nonno che ancora posto addosso. É quello che sta succedendo in nord Europa: gli scandinavi possiedono poche cose, ma si permettono più ore di massaggi, un’assistenza come si deve agli anziani, asili e scuole che funzionano. Questo è un Pil che cresce, però lo fa senza avere impatto sulla natura.
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Oggi il mondo sembra molto più pronto e consapevole sulle tematiche ambientali. Eppure, al di là delle tendenze culturali ed economiche in atto, sembra che manchi la finalizzazione: non riusciamo a far calare le emissioni come vorremmo. Che ne pensa?
La mia sensazione è che siamo nei minuti prima dell’inizio della gara alle olimpiadi. La gara sono quei 20 secondi di gloria in cui tutto succede, ma sono stati preceduti da anni di sforzi, allenamenti, fallimenti e così via. Quello che ho visto sono vent’anni di tentativi dei governi e della società civile di gestire i problemi ambientali. Poi però ho visto un cambio di paradigma, repentino, guidato dai mercati. È il mercato che inizia a volere questa benedetta salvezza. Paradossalmente la cosa che manca è l’inerzia del consumatore. Avremmo bisogno di far cambiare il mercato più velocemente nella direzione che vorrebbero le imprese. Ad ogni modo le cose si stanno muovendo, non siamo nell’utopia.
L’Italia che ruolo può avere in questo processo?
Ne parlo nelle due pagine finali del libro, che sono quelle a cui tengo di più. A mio avviso non c’è paese al mondo più vocato dell’Italia per fare questa operazione. Abbiamo veramente tutto, forse per salvare il mondo, sicuramente per fare soldi a palate. Oggi un posto come Copenaghen fa i miliardi vendendosi come modello di sostenibilità, ma nasce senza risorse per farlo. È una località poco favorevole, una palude spazzata dal vento. Se quello che ha fatto Copenaghen lo facessero Cremona o Siena, avremmo veramente un modello di sviluppo giusto, veloce, che arricchisce tutti quanti. E uso volutamente un termine brutto, “arricchisce”. Quello che voglio dire è che se non vogliamo cambiare il mondo perché i nostri figli hanno diritto a un pianeta vivibile, almeno facciamolo perché ci riempie le tasche di soldi.
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