Mettersi nei panni dell’altro, il modo migliore per risolvere i conflitti
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Padova, Veneto - Che la pandemia di coronavirus abbia fatto emergere le enormi disuguaglianze e le contraddizioni della società contemporanea lo abbiamo sentito dire in tutte le salse e con diverse intenzioni. A forza di ripetercelo, questo assunto – che è per evidenza veritiero – sta perdendo colore e intensità, così come sentiamo sfilacciarsi sempre più velocemente quelle che fino a qualche mese fa consideravamo prospettive certe di risoluzione.
La solidarietà fatica a tenere ben salda la sua posizione nel lessico comune e lo spazio urbano ha assunto connotazioni nuove e a tratti spaventose. Le città possono essere attraversate, di tanto in tanto consumate, ma per questioni di sicurezza, vissute il meno possibile. Vediamo ridursi sempre più la possibilità di essere abitanti di un territorio, progressivamente perdiamo il contatto con l’ambiente che ci circonda e l’altro, di default, viene sempre più facilmente percepito come una minaccia alla nostra stabilità.
In questo scenario si collocano anche pratiche volte, al contrario, alla mediazione e risoluzione dei conflitti sociali e penali. Esse assumono un valore aggiunto, perché un tessuto sociale tagliuzzato e costellato di piccoli e grandi strappi ha bisogno di trovare le proprie modalità per riuscire a superare le conflittualità e a vivere le città come possibili luoghi di cura collettiva e non certo di guerra, soprattutto in tempi di pandemie.
Il Centro per la mediazione dei conflitti è una iniziativa dell’associazione Granello di Senape – costituitasi come soggetto autonomo nel 2004 rifacendosi all’esperienza dell’Associazione-madre, “Il granello di senape”, che ha sede a Venezia –, un progetto di giustizia riparativa in ambito sociale e penale. «La visione della giustizia riparativa – spiega Lorenzo, che fa parte del Centro – ci porta a posare lo sguardo sul territorio, porsi in una dimensione di ascolto e mai di giudizio nel raccogliere tutte l esperienze e i punti di vista. Quello che fa un mediatore di fatto è ricucire uno strappo e per farlo nel migliore dei modi è importante mantenere la centratura necessaria».
Piazza Mazzini è ai limiti del quartiere Stazione, poco prima del centro. È un punto di ritrovo per molti “senza dimora”, per persone con problemi di dipendenze. Per evitare che le panchine di questa piazza venissero utilizzate per dormire, la precedente amministrazione le ha tolte; ovviamente questo non ha risolto i conflitti e le criticità tra i due schieramenti di abitanti. Da un lato ci sono quelli per così dire autoctoni, che vivono nei palazzi intorno alla piazza, che hanno paura di attraversarla con il buio e che si lamentano – a ragione – del mancato rispetto dello spazio pubblico. Dall’altro lato c’è il gruppo delle persone che non hanno altri posti dove trascorrere le proprie giornate e che sono ben consapevoli di essere percepiti come causa di degrado, se non di vero e proprio pericolo.
«Il percorso che stiamo costruendo a piazza Mazzini non è certo semplice – prosegue Lorenzo –, ma ogni situazione è difficile a modo suo. Stiamo lavorando con entrambi i gruppi per spingerli a usare l’empatia per una maggiore introspezione, singola e collettiva. Mettersi nei panni dell’altro infatti è uno sforzo a cui si è sempre meno abituati, ma è necessario riconoscersi a vicenda se si vuole uscire da una dimensione conflittuale che spesso è il risultato di paure diverse ma speculari. La paura del diverso può essere una minaccia alla propria intimità quotidiana ed è legata a quella di essere continuamente respinti dalla società, buttati fuori da un cerchio nel quale poi è complesso reinserirsi».
Portare avanti questo genere di pratiche nelle zone urbane in cui le criticità sono più evidenti e le convivenze a volte impraticabili è fondamentale in un’ottica trasformativa del presente e soprattutto del futuro. Lo è in particolar modo in un periodo storico tanto fragile come quello che stiamo vivendo, in cui troppo spesso le situazioni di conflitto vengono “risolte” con soluzioni securitarie e repressive che nel concreto non sciolgono i nodi, ma spostano semplicemente i problemi e i conflitti di qualche metro. Al contrario, la mediazione del conflitto si pone come una pratica di prossimità che, se ben gestita, può generare nuovi equilibri di comunità.
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