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Spesso abbiamo ospitato su queste pagine Melania e Ilaria di TARA e con loro abbiamo scoperto i mondi della facilitazione con tutte le loro implicazioni. Oggi però le incontriamo nella veste di donne “in carriera”, in grado di diffondere nuovi paradigmi e di praticare anche nel proprio quotidiano nuovi approcci e nuovi modi di vivere e sentire. Non a caso, Melania è anche una delle protagoniste del nostro ultimo libro “Il bene e il male esistono?”. Ma oggi parliamo di donne, di femminile, di cambiamento. Temi spinosi… Essere donne oggi… Una vera impresa!
Quali sono, nella vostra esperienza e nelle esperienze con cui collaborate, i valori che porta il femminile nel mondo dell’impresa?
Leggiamo femminile come femminista. In un sistema spesso rigido e verticistico come quello che si trova in molte imprese, avere un approccio femminista significa portare attenzione sulla diversità, dare voce alle minoranze, trovare risposte dove non le abbiamo cercate. La visione femminista amplia le vedute, porta uno sguardo sistemico e a lungo termine. Permette di rallentare per osservare e prendere decisioni sostenibili, attente all’impatto delle nostre azioni sull’ambiente e sulle generazioni future. In quest’ottica fragilità e diversità sono risorse che generano soluzioni creative: non punti di debolezza da eliminare ma voci da ascoltare e integrare. Quello femminista è uno sguardo che va oltre il genere.
C’è una differenza fra avere donne in ruoli di potere e dare un maggior peso al femminile?
I piani da esplorare sono due: il ruolo delle donne e il peso del femminile. Femminile è un aggettivo non necessariamente legato al genere: io (Melania) mi identifico come donna, ma il mio compagno ha più caratteristiche culturalmente considerate femminili di me! Se al femminile associamo, ad esempio, qualità di ascolto, cura, attenzione alla bellezza, introspezione, ogni persona può dare maggior peso al femminile! Ricercare un equilibrio tra maschile e femminile è auspicabile per tuttə. Il ruolo delle donne, invece è un’altra cosa. Nell’impresa, come nella politica e nei luoghi di potere, c’è un problema strutturale che riguarda le donne e più in generale le minoranze. Viviamo una situazione sbilanciata in cui i ruoli di potere sono ricoperti da uomini, bianchi, eterosessuali, di età tra i 50 e i 70 anni, più o meno in perfetta salute. Chi prende decisioni lo fa da questo punto di vista con il rischio di avere poca attenzione verso tutte quelle persone che non assomigliano a questo identikit. La condivisione del potere deve essere mossa da una volontà comune: le donne non possono più tacere, gli uomini non possono più non ascoltare.
In molti casi ho l’impressione che nel “conquistare la parità” si cerchi di diffondere ulteriormente lo stampo patriarcale. Alcuni esempi. È considerata una conquista il fatto che anche le donne possano fare il militare. Non aveva più senso impedire anche agli uomini di farlo? O sempre più donne si “emancipano” dall’autoproduzione, la cura, i figli, per poter fare carriera. Non era meglio puntare sul fare in modo che più uomini si emancipassero dal lavoro in nome di altro? Non c’è il rischio che anziché “femminilizzare” la società si stia ulteriormente “maschilizzando”? Auspichiamo una rivoluzione per andare oltre il sistema binario. La donna angelo del focolare e l’uomo che porta il pane sono immagini antiquate e svilenti, come la donna con i pantaloni e il mammo. La realtà è più complessa, andiamo verso una società fluida per quanto riguarda ruoli e generi. Per i ventenni di oggi alcuni concetti legati al genere sono obsoleti mentre altri si sono già affermati, come il transgender. La conseguenza del cambiamento non implica la rinuncia alla propria identità. Anzi: è il contrario. Possiamo abbracciare un’identità più autentica proprio perché permettiamo alla diversità di emergere: essa c’è sempre stata, ma non ha avuto la possibilità di mostrarsi pienamente perché ingabbiata in etichette approssimative.
Cosa ne pensate delle quote rosa?
Sono uno strumento: hanno una funzione, ma anche grandi limiti. Le quote rosa, infatti, possono facilitare la transizione perché permettono di portare l’attenzione sulla disparità. Come un dito puntano, indicano dove sta il problema, ma non lo risolvono. Una volta che la vediamo, quella disparità, dobbiamo agire per il cambiamento con strumenti più concreti e mirati, come la promozione di pratiche di welfare adeguate. Uno dei limiti delle quote rosa, però, riguarda la loro più intima natura. Rappresentano l’emblema del potere degli uomini che concedono qualche briciola alle donne, schiacciate nel ruolo passivo di beneficiarie. Ci spieghiamo con un’immagine: pensiamo a una pista da corsa con atletə in gara, uomini e donne. Le quote rosa sono il nastro di partenza, mettono tuttə nella stessa condizione iniziale. Ma poi sul percorso solo le donne trovano ostacoli. Se non li rimuoviamo è ovvio che ad arrivare al traguardo siano solo gli altri.
Gli stereotipi sessisti sono insopportabili. Ma esistono delle differenze che vanno curate ed esaltate o dovremmo andare verso l’annullamento di genere?
Ogni stereotipo è insopportabile. Come un’etichetta approssimativa limita la pienezza, la felicità e la libertà di ogni essere umano. Anche lo stereotipo sessista riguarda tutte le persone, non solo quelle di sesso femminile. Nel momento in cui la cultura dominante stabilisce come deve essere una donna, definisce anche l’uomo: se le differenze accettate sono solo quelle considerate ammissibili dalla cultura dominante, allora quelle diversità sono in realtà dei limiti, costringono lo spazio di espressione invece di ampliarlo. Inoltre, il genere non è solo binario, quindi l’annullamento avviene proprio quando non valorizziamo le diversità. L’annullamento comincia quando limito l’emersione della diversità, non quando la facilito.
Veniamo agli aspetti più pratici. Il mondo del lavoro è storicamente pensato e strutturato sulle esigenze degli uomini. Quali sono le esigenze delle donne che il lavoro non rispetta? Come potremmo migliorare la situazione?
Facciamo solo alcuni esempi eclatanti, consce di escluderne molti. Dal nostro punto di vista le donne spostano l’attenzione su temi che porterebbero benefici a tuttə, indipendentemente dal genere. Il tempo ciclico, ad esempio: il ciclo mestruale, tema super tabù, è centrale nella vita di una donna ed è assolutamente non considerato o peggio, visto come un handicap mensile. Il tempo della fragilità e dell’emozione. Dobbiamo riportarlo in società, re-imparare a sentire, aldilà della performance a ogni costo. È di qualche giorno fa la notizia che in Nuova Zelanda è passata la legge che prevede quattro giorni di congedo retribuito per entrambi i genitori in caso di aborto spontaneo o bambinə natə mortə.
Il Covid, purtroppo, con il tempo della malattia e del lutto, ha riportato al centro il tema, con violenza. Il tempo libero, la cura di sé, un’attenzione speciale alla costruzione di cose legate al bene comune. Dovremmo agire per portare questi temi dalla dimensione privata a quella collettiva. Una ricaduta concreta potrebbe riguardare la progettazione di spazi ibridi pubblico-privato: molti studi hanno dimostrato come portare i propri animali domestici o le bambinə in ufficio, aumenta l’empatia e la felicità. Poi, spazio alla creatività per aumentare l’inclusione! Un esempio: a Madrid per lavoro, presso un collettivo, ci spiegarono che nei bagni degli uffici avevano fatto mettere, accanto al water, un piccolo lavandino per poter lavare le coppette mestruali (mooncup). Un’attenzione ai nostri occhi futuristica.
Parliamo di linguaggio. L’italiano è considerato una lingua maschilista per l’uso dei pronomi e del genere nei plurali. Al tempo stesso in molti (e molte… o perlomeno alcune) difendono sorta di sacralità della lingua e sono refrattari all’introduzione di un linguaggio di genere più inclusivo. Cosa ne pensate?
Non rispondiamo in astratto, ma nel concreto: abbiamo risposto all’intervista al plurale e attraverso l’uso della schwa! Il carattere, disponibile tra quelli speciali in ogni programma di scrittura e anche sulle tastiere degli smartphone, serve a superare il genere maschile nel plurale quando include anche soggetti femminili. Non si tratta di una mera questione formale, ma ha ricadute profonde. Pensiamo al “buongiorno bambini” la mattina, a scuola: già tra i banchi le bambine imparano a non essere chiamate, a non essere viste e riconosciute. Chiamare con il nome corretto è un atto di rispetto e di riconoscimento sociale profondamente formativo e trasformativo. Non vale la regola per cui abbiamo sempre fatto così. La lingua sta per strada, non nei musei! È cosa viva, in trasformazione costante!
Risposta sincera per una domanda forse banale: pensi che un mondo più femminile sarebbe un mondo migliore, più giusto?
Rilanciamo la domanda: come può essere un mondo giusto se la maggior parte del potere decisionale è in mano ad una minoranza di persone molto omogenea? Più diversità ai vertici potrebbe portare più giustizia. A livello personale, inoltre, se ognunə di noi avesse la possibilità di essere pienamente sé stessə, crediamo che il mondo sarebbe più felice, alimentato dalla felicità che la pienezza dona a ciascun essere umano. Insomma, un mondo migliore è quello in cui la diversità è un valore, a livello politico e personale. Un mondo più femminile, più diversamente abile, più dislessico, più bambino, più migrante…
Post Scriptum: le risposte all’intervista sono frutto di una discussione con Ilaria Magagna e Federica Colonna del team TARA. Il tema è importante, delicato e complesso, più aumentiamo le voci e più quello che emerge può dare prospettive sostenibili per il futuro. Ci siamo scaldate, sono emerse tante emozioni, tra cui la rabbia: nonostante la donna oggi abbia molto più potere rispetto anche solo a cinquant’anni fa, c’è molto, molto, molto, da fare. È una rivoluzione culturale, non possiamo pretendere che sia sempre tranquilla e serena. Ma ci impegniamo a far sì che sia costruttiva. Non vogliamo rimpiazzare la cultura patriarcale con un’altra matriarcale. Il femminismo, per come lo leggiamo noi, è per tutti e tutte.
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