29 Apr 2021

La storia di Delfino: sette anni sulla strada fra ecovillaggi e comunità

Scritto da: Cristina Diana Bargu

Trovare un equilibrio fra esseri umani ed ecosistema è fondamentale, ma forse è necessario lavorare prima sulle relazioni fra esseri umani ed esseri umani. Per farlo Efstathios – conosciuto da tutti come Delfino – ha viaggiato, lavorato e approfondito l'arte della facilitazione, con l'obiettivo di contribuire a creare comunità armoniose e sostenibili.

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Si chiama Efstathios Mavridis, ma in Italia è conosciuto con il soprannome di “Delfino”. Ha dedicato la sua vita all’attivismo, ha viaggiato e lavorato come panettiere e birraio per dodici anni nell’ecovillaggio di Lakabe. Oggi, dal piccolo paese di Camini, vicino a Riace, coltiva il sogno di diffondere sempre di più la cultura della facilitazione. Un sogno che porta avanti sia individualmente, accompagnando singoli, relazioni e gruppi e tenendo corsi in Grecia, Spagna e Italia, sia collettivamente, come co-fondatore dell’Accademia di Facilitazione e Trasformazione, organizzazione attualmente in costruzione. Lo abbiamo interrogato sulla sua storia e sul suo percorso. Ecco che cosa ci ha raccontato!

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Dove sei cresciuto e come hai sviluppato l’interesse per l’attivismo?

Sono cresciuto in un quartiere della periferia di Salonicco, in Grecia, in un contesto di famiglia allargata, con tanto di zii e cugini. Nei primi anni della mia vita quel quartiere era praticamente campagna. C’erano galline, conigli e ogni tanto gli sciacalli scendevano dal bosco. Ricordo che mi piaceva molto arrampicarmi sugli alberi e fare tuffi. Allora Salonicco aveva una popolazione di 350 mila abitanti. Poi, mentre crescevo, la città si è popolata sempre di più e il cemento ha iniziato a mangiarsi via via il terreno, fino a divorarsi quasi tutto quello che c’era di verde. Quando avevo 17 anni ormai Salonicco contava quasi un milione di persone e il paesaggio era completamente cambiato.

Come hai reagito a quello che stava succedendo intorno a te?

Mentre la natura veniva spazzata via sotto i miei occhi, ricordo che cercavo la bellezza, la speranza, la profondità in altri posti – nella lettura, nell’associazionismo. A 15 anni entrai a far parte di un’associazione di volontariato che portava avanti azioni ambientali e accompagnava persone diversamente abili. È stato così che ho avuto il primo contatto con le riunioni, i cerchi, le decisioni con il metodo del consenso. Il tutto veniva portato avanti con un’attenzione alla diversità di tutti, e sognavamo una trasformazione sociale che partisse dall’instaurazione di una relazione diversa con la natura e tra di noi. Ricordo di essere stato molto segnato dalle idee dei movimenti ecologisti, soprattutto dalla lettura de “L’ecologia della libertà” di Murray Bookchin. Una visione, questa, che oggi si sta realizzando nel Rojava, Kurdistan, con il Confederalismo Democratico, e a cui personalmente mi sento molto vicino.

L'Ecologia della Libertà
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Che cosa hai studiato? Come sei arrivato a fare il salto dall’impegno ambientale alla ricerca di una sostenibilità “umana”?

Ho studiato scienze ambientali a Lesbos, in un’università sperimentale con idee abbastanza radicali all’inizio della sua storia, che guardava ai temi ambientali anche sotto una lente sociale e politica. Ho concluso gli studi con una tesi e un documentario contro le miniere d’oro in Calcidica e per un periodo ho vissuto lì, a contatto con le persone dei paesi che lottavano. Ricordo che mi ero avvicinato a loro con tanto entusiasmo, con la speranza che avessero LA soluzione, una qualche pozione magica, invece mi resi conto che pur essendo usciti vittoriosi erano rimasti sfiancati dalla lotta, a causa della repressione, ma anche per i problemi interni.

Fu allora che misi a fuoco che oltre a tutto ciò che non andava bene fuori – la distruzione della natura, lo sfruttamento, le manipolazione – c’era anche qualcosa che non funzionava nei gruppi stessi a cui io partecipavo o con cui avevo relazioni. Altrimenti non si spiegava perché delle persone così belle, con tutte quelle qualità e quegli ideali non riuscissero a stare e lavorare insieme in maniera sostenibile nel tempo. È stato così che ho iniziato a porre attenzione alla comunicazione e ai conflitti, a cercare risposte, strumenti, punti di riferimento che potessero darmi chiarezza. Ed è sempre con queste domande che sono partito, zaino in spalla, a 25 anni.

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Raccontaci un po’ dei tuoi viaggi.

Ho viaggiato per sette anni facendo molti mestieri diversi e conoscendo molti luoghi. Fra le tante cose sono stato spazzino, programmatore radiofonico, spesso raccoglitore e lavoratore agricolo… Sono stato in Olanda, Danimarca, di passaggio in Germania, poi Francia, molto in Spagna, Italia, e ancora in Messico per un viaggio politico in Oaxaca e in Chiapas.

L’esperienza che ritengo più significativa e utile l’ho vissuta nei paesi occupati di Navarra, in Spagna, che avevo incluso regolarmente nei miei viaggi. Quel luogo in particolare ha saziato parte della mia voglia di trovare risposte, trasformandola in voglia a provare a fare e a stare. Perché internamente mi dicevo che va bene dire di no. Muoversi contro qualcosa. Lo ritengo anche oggi molto importante. Io però anelavo anche a dire di sì a qualcosa. Quindi a tagliare ponti, ma anche a costruirli. L’esperienza di quei paesi, nei quali si viveva così vicini alla natura, dove si attingeva alle risorse locali, è stata per me una scoperta grande e non l’ho lasciata perdere. Infatti, dopo tutto quel girare, alla fine mi sono fermato lì, a Lakabe.

Com’è l’ecovillaggio di Lakabe?

Lakabe è solida come una roccia. L’anno scorso ha celebrato i quarant’anni, di cui gli ultimi dieci, secondo me, sono stati segnati dalla cultura della facilitazione. Quando sono arrivato, in Spagna la facilitazione si era appena affacciata, per innestarsi fin da subito anche a Lakabe grazie a una delle fondatrici. Un innesto andato bene, perché quella cultura è riuscita a sposarsi bene con i trent’anni precedenti, all’insegna del lavoro duro, del radicamento nel territorio, della lotta – perlopiù ambientale. Non è un paradiso, perché sulla Terra non esiste alcun paradiso, ma è una comunità solida, sempre in crescita e trasformazione, e ho tratto molto dai dodici anni che ho vissuto lì.

Come sei entrato a Lakabe e quali sono le principali esperienze fatte lì?

Sono arrivato come panettiere. Quando viaggiavo avevo sempre dietro una pallina di pasta madre: era una costante nella mia vita, il mio contatto con la parte terrena. E per Lakabe è stata anche una chiave d’accesso. E ho fatto anche il birraio, producendo dai 1.500 ai 4.000 litri di birra l’anno. Poi lavoravo con i cavalli, ho costruito una casetta di tronchi, facevo networking, presentazioni, partecipavo nella rete dei paesi occupati e tanto altro ancora. E facevo anche il padre – di tre dei miei figli, due sono nati e cresciuti lì.

Cosa ti ha portato a lasciare Lakabe?

Ho lasciato Lakabe perché ho sentito che era il momento di portare fuori quanto avevo appreso. Nel frattempo mi ero formato come facilitatore IIFAC-e, avevo completato la formazione come facilitatore di Forum-Zegg e avevo sviluppato uno stile personale combinando vari strumenti e paradigmi, come l’Arte del Processo, il forum e il co-ascolto e la visione sistemica. E avevo iniziato a viaggiare, tenendo corsi e accompagnando comunità, scuole libere, cooperative, una compagnia di circo…

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Dove vivi adesso e di che cosa ti occupi?

Adesso vivo in un piccolo paese che si chiama Camini, vicino a Riace, in Calabria. È un paesino molto piccolo che ha un progetto di accoglienza profughi molto vivo. Siamo 320 abitanti, dei quali 120 sono rifugiati provenienti da vari paesi. Qui quest’inverno ho trascritto in Italiano le Storie di Chi Kung, storie di animali basate su metafore ed esercizi dei cinque animali dei Chi Kung. Piano piano vorrei fare un libro con l’aiuto di una mia collaboratrice che fa illustrazioni. Spero di poter presto tornare anche a raccontare e cantare storie dal vivo, perché fra le altre cose sono anche un cantastorie.

Nel frattempo continuo ad accompagnare persone, relazioni e gruppi che sono in difficoltà o che vorrebbero mettere radici ai propri sogni, e insegno facilitazione. Attualmente sta per ripartire il corso base, che quest’anno si terrà presso la Comune di Bagnaia, e quest’anno inaugureremo anche il anno di approfondimento, presso La Colomb’era. Con i compagni dell’Accademia di Facilitazione e Trasformazione poi, abbiamo definito la visione e la missione che ci accomuna. Per me lavorare con loro vuol dire portare ciò che faccio a un livello più ampio, così da diffondere sempre di più la cultura della facilitazione.

Perché, secondo te, la facilitazione è così importante?

Per me questi strumenti sono come una piccola grande luce che vedo stando dentro a un tunnel abbastanza buio, come in parte lo sono i tempi attuali. Io quando vivo la magia la seguo, anche senza sapere cosa troverò alla fine. Uno dei miei maestri, che ha portato una visione di facilitazione integrale, diceva che per poter sognare una trasformazione sociale bisogna avere un facilitatore ogni dieci persone. Senza piani, penso che già mettere al servizio dei processi emergenti ciò che ho imparato possa essere una chiave per il cambiamento.

Facendo un succo, un concentrato della tua esperienze, che cos’è che vorresti condividere con i lettori di Italia che Cambia?

Posto che sono una persona come tutti, in cammino, e accettando pure le mie e le nostre difficoltà, vorrei dire: «Tu che leggi, pur senza conoscerti, vorrei invitarti a seguire ciò che rappresenta per te la luce in fondo al tunnel, la magia. E, anche quando ci saranno momenti di difficoltà, ti voglio invitare a fermarti per quanto sia necessario, ma a non arrenderti. Buon cammino!».

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