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Torino - Era il 1995 ed ero davvero ancora agli inizi della mia professione di medico. Il lavoro di sanitario presso una struttura carceraria durò un paio di anni. Un periodo breve, ma che mi ha insegnato molte cose. Lui lo ricordo ancora molto bene, anche dopo venticinque anni, fra i tanti volti passati, visti e rivisti tante volte da dietro l’austera scrivania della infermeria della Casa Circondariale di B. Quella scrivania era divisa dalla libertà da otto solerti porte automatiche e centocinquanta passi.
Lui era alto e magro, con una barbetta brizzolata ruvida e rada, gli occhi vivissimi e guizzanti, i capelli incolti e lunghi. Il suo volto scavato raccontava con trasparenza un infinito dolore e rassegnazione. Il cognome declinava con certezza le sue origini siciliane. Il suo dialetto inconfondibile e schietto raccontava sicuramente Palermo. Lui era uno dei tanti detenuti che al mattino faceva la fila nell’ambulatorio del carcere. Non ho mai voluto sapere, naturalmente, perché fosse finito in un penitenziario. E alla fine non l’ho mai saputo.
Questo era per me un principio fondamentale ed imprescindibile per poter esercitare con serenità il lavoro di medico in un posto non facile come quello. Ogni tanto gli agenti di custodia mi raccontavano qualche cosa sul passato dei miei pazienti ma io cercavo di glissare sempre. I miei pazienti erano solo dei malati. Lui era un paziente abituale, e passava in infermeria abbastanza spesso.
Si sedeva appoggiando il gomito destro sulla scrivania, mi guardava fisso negli occhi e mi ripeteva: «Dottore, non mi funziona bene il cervello». Lo diceva con tono accorato e anche un po’ teatrale con gli occhi rivolti verso il cielo, quasi a cercare una sorta di benedizione o quanto meno di approvazione divina. Gli chiedevo di spiegarmi bene, ma non c’era molto da dire. Si prendeva la testa fra le mani e mi diceva: «Il cervello dottore… il cervello». La sua cartella clinica raccontava innumerevoli valutazioni psichiatriche con variopinte diagnosi: “stato depressivo, note di delirio persecutorio, disturbo schizotipico di personalità”. Nessuna di queste definizioni raccontava chi era. Lui si recava in infermeria più per chiacchierare o per chiedere di aumentare il dosaggio già altissimo degli psicofarmaci per alleviare chissà quale disagio profondo.
Gli agenti di custodia lo consideravano un tipo bizzarro ma nella sostanza non particolarmente pericoloso. Una mattina però arrivò più agitato del solito e finalmente riuscì a dirmi qualcosa di più. Era molto preoccupato, perché tra qualche giorno avrebbe concluso la detenzione e come si suole dire: “si sarebbero aperte le porte del carcere”. Con la testa tra le mani continuava a ripetermi: «Dottore adesso dove andrò? Non ho nessuno che mi aspetta, dovrò tornare a Torino».
Non avevo mai riflettuto su una situazione del genere. Non si pensa mai che per molti esseri umani il carcere rappresenta una sorta di casa. Fuori mancano spesso affetti, amicizie, legami familiari. Molti hanno la residenza nell’istituto di pena e non sanno neanche dove dormire. Fuori manca il lavoro, non si è più nessuno. Il carcere per molti rappresenta una sorta di identità e il dopo è solo insicurezza.
Ho avuto un colloquio non facile. Cosa si può dire oltre qualche ovvietà? La direzione da me interpellata mi ha assicurato che sarebbe stato in qualche modo comunque affidato ai servizi sociali di Torino. Dopo tre giorni, è uscito. Mi hanno detto che aveva uno scatolone legato col cordino e un sacco nero dell’immondizia con tutte le sue cose. Aspettava l’autobus per la stazione. Finalmente libero.
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