Mamma, il sangue è uguale anche se il colore della nostra pelle è diverso?
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Il nostro ospedale a Kanyaka è un centro di emergenza: ben fornito, di qualità, ma piccolo, troppo piccolo rispetto alle esigenze della zona. Una quarantina di posti letto e una decina di operatori rappresentano l’unica possibilità di assistenza affidabile in un’area rurale in cui abitano circa diecimila persone. Può capitare allora che a causa della grande richiesta manchino le cose più basilari, come i medicinali, il liquido per le perfusioni, a volte anche i letti.
Oggi ad esempio, quando la piccola Sarah è arrivata al centro stretta tra le braccia della mamma, con le pupille stanche e pallide per l’ennesimo accesso di malaria, mancava uno stock di sangue ARH+. In laboratorio ne avevamo di altri gruppi compatibili, ma Sarah era stata colpita da malaria già troppe volte nelle ultime settimane, aveva avuto varie trasfusioni e ora non poteva ricevere che dal suo stesso gruppo sanguigno.
Il mio sangue è ARH+ e, nonostante mamma mi ripeta da anni che non è buono perché leggermente anemico, alla mamma di Sarah si sono schiusi gli occhi di speranza quando mi ha visto seduto davanti a Djo, il nostro infermiere di laboratorio, con il laccio emostatico attaccato al braccio. Poco distante, nello stesso momento, la piccola Sarah è stata presa da un dubbio ingenuo: con un filo di voce, in swahili, l’ho sentita chiedere alla mamma se andava bene il mio sangue anche se il colore della pelle era così diverso dal suo.
Vedere la busta rossa, dello stesso rosso scuro che aveva già visto tante e tante volte nelle ultime settimane, per lei è stato un tuffo rassicurante in un mare sconosciuto. In quell’esatto momento, Sarah ha scoperto che il sangue, qualunque sia il colore della pelle, ha le stesse sfumature, la stessa consistenza ovattata, lo stesso odore neutro di speranza. Grazie all’intervento di Djo, dopo poco le sue guance cerulee hanno ripreso colore. Ora è in osservazione nel reparto pediatrico, con al fianco la mamma e le tre sorelline piccole; secondo il medico in un paio di giorni potrà tornare a giocare all’aperto.
Nel tragitto verso casa, stanco e felice, ho ripensato allora alla sua piacevole sorpresa, alle sue pupille confortate dal colore ocra della busta di sangue; ci ho trovato dentro la speranza di incontrare quella stessa calma rassicurante in ogni paio d’occhi che avrò di fronte domani, lo stupore naturale verso la profonda identità che ci unisce, la consapevolezza che la diversità delle forme è solo l’abito di una sostanza identica. Ho pensato poi che nonostante i limiti, nonostante le difficoltà, il lavoro di AMKA nel centro di salute di Kanyaka rappresenta una goccia indispensabile nell’oceano della campagna congolese e senza quella goccia oggi Sarah sarebbe lasciata alla casualità di un fatalismo troppe volte ingiusto.
Come ogni giorno, alla sera mi ritrovo allora a contare le lezioni della giornata. Oggi sono due. La prima è che nella difficoltà, nei piccoli interventi quotidiani – come quelli degli operatori del centro di AMKA a Kanyaka – con cui si tenta di arginare l’onda dell’emergenza, spesso c’è l’anima più genuina dell’impegno e della lotta per la normalità e che così si finisce ancora più spesso per diventare una speranza fatta realtà.
La seconda invece è che come persone, nonostante l’inganno di differenze apparenti, siamo il riflesso l’una dell’altra. Alla piccola Sarah è servita una busta di sangue rosso ocra per intuirlo. La speranza è che a tuttə noi basti guardarci con attenzione.
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