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Genova - L’acquisto della casa per molti è l’investimento della vita perché, nonostante sia un bene materiale, è qualcosa in cui ci si indentifica. Le spese iniziali poi sono tantissime: le pratiche immobiliari, il notaio, le ristrutturazioni, l’arredamento. Dopo l’immane fatica, che dura in genere svariati mesi, finalmente si tengono in mano le tanto agognate chiavi. Immaginate però che queste chiavi non siano per voi, né per qualche amico o parente stretto. Immaginate di consegnarle a qualcuno di cui non conoscete né il volto né il nome. Per chiunque sarebbe una follia, per S. invece è un sogno che si avvera.
S. è la professoressa di una scuola superiore genovese che nei mesi scorsi ha acquistato – accendendo un piccolo mutuo – e ristrutturato insieme a suo marito un appartamento che sarà destinato in comodato d’uso gratuito alla Comunità di S. Egidio per cinque anni. Chi abiterà questa casa? Una famiglia di sconosciuti, profughi che stanno arrivando in Italia tramite i corridoi umanitari. Si tratta di un protocollo d’intesa che prevede l’arrivo legale nel nostro paese per tante persone che, diversamente, non avrebbero la possibilità di arrivare in Europa.
Dopo essere stata a Lesbo lo scorso agosto come volontaria nei campi profughi, S. s’è resa conto dell’estrema difficoltà dell’attuale situazione e, rientrata a Genova, ha preso questa decisione così importante.
Tu e la tua famiglia avete comprato e ristrutturato una casa da destinare a sconosciuti: cosa vi ha spinto a farlo?
Durante il lockdown ci siamo resi conto che la situazione era effettivamente molto grave. L’emergenza sanitaria ha colpito molte famiglie italiane e straniere, dal punto di vista dell’isolamento ma anche sul piano economico. Così abbiamo pensato che fosse necessario un contributo più ampio da parte nostra e abbiamo voluto allargare lo sguardo anche a chi, in questo periodo di pandemia, si trova senza alcuna prospettiva. L’esperienza di questa estate a Lesbo mi ha profondamente segnato. Ho visto le porte dell’Europa serrate, ho toccato con mano un fenomeno che le istituzioni comunitarie non sono capaci di gestire, ho conosciuto famiglie che vivono in baracche, senza acqua e con una manciata di bagni per centinaia di persone, ho visto persone fare diversi chilometri a piedi per poter mangiare. Un contesto critico, dove però non manca la speranza di ricominciare una vita migliore. Mentre mi trovavo lì ho anche insegnato ed è proprio la scuola che dà il senso di un progetto di vita, di una quotidianità di cui i bambini e i ragazzi hanno profondamente bisogno.
Quali sensazioni state vivendo tu e la tua famiglia in questo momento di attesa?
Mi sento non arresa all’impossibilità di aiutare, di rendermi utile in un momento così tragico ed epocale che sta affrontando il mondo intero. Tutta la mia famiglia ha condiviso questa decisione, perché stiamo cercando di passare ai nostri figli adolescenti il messaggio che non ci si salva mai da soli. Anche se viviamo in un contesto di medio benessere, bisogna sempre pensare a chi non gode del diritto all’istruzione e alla sanità. Nella disponibilità di un lavoro, è sempre possibile aiutare chi è in difficoltà. Secondo noi la famiglia non è un nucleo chiuso, ma aperto verso l’esterno, verso gli altri.
Per questo stiamo vivendo tutti con trepidazione questo momento d’attesa: abbiamo più volte immaginato chi sta per venire, ma in fondo non è importante, perché sappiamo che verrà affidata a qualcuno che è scappato dalla guerra, a nuclei familiari provenienti da zone che conoscono grandi persecuzioni politiche, sociali e dei diritti umani.
Quanto è importante secondo te fare comunicazione sul tema dei rifugiati?
Parlarne è davvero importante, perché è essenziale badare alla propria salute, è vero, ma non bisogna pensare esclusivamente a questo. Perché non alzare lo sguardo e vedere che esistono altri mondi, altre situazioni? Ora gli articoli sui paesi in guerra fanno poca notizia, il covid porta a pensare solo a sé, ma va detto che la pandemia ha ulteriormente aggravato situazioni già molto critiche.
Una storia di solidarietà e fiducia incondizionata che parla di un’umanità di cui spesso ci dimentichiamo.
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