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Torino - Ho varcato la soglia di un carcere alcuni anni fa come volontaria di un’associazione per gestire uno sportello sociale per pratiche pensioni, disoccupazioni e altro e poi come Garante Comunale per i diritti dei detenuti, ruolo che ho ricoperto per cinque anni. Ho incontrato una umanità dolente, rassegnata, arrabbiata, fiduciosa, incattivita, altruista, impaurita, silenziosa, allegra, speranzosa, creativa, in altre parole ho incontrato “l’uomo” in tutte le sue debolezze, ma con una grande volontà di riscatto.
Ho visto piangere un anziano detenuto al quale veniva negata ogni possibilità di far valere i propri diritti. Ho incontrato persone con 20-30 anni di carcere sulle spalle – fine pena: “mai” –, ma ancora con la speranza di vedere la propria casa e di tornare liberi.
Mi è rimasto impressa la storia, tra le tante, di un detenuto condannato all’ergastolo ed entrato in carcere a vent’anni. Mi raccontava che conosceva solo il quartiere dove era nato e cresciuto e che tra bande rivali sopravviveva chi sparava per primo. Mi disse che il carcere l’aveva salvato ed era riconoscente alla scuola interna che gli aveva permesso di studiare.
Ho incontrato un capo mafia già anziano e con oltre trent’anni di pena scontata che si è laureato in carcere in Sociologia e che, nei giorni di permesso, svolgeva volontariato in una struttura per anziani.
Ho conosciuto un detenuto che negli anni ottanta faceva parte delle “Brigate Rosse” a tempo pieno e prima ancora fu rapinatore e gangster: non ha mai rinnegato le sue scelte sbagliate, anche se era molto critico verso sé stesso al punto di scrivere un libro sulla sua cattiva strada. Ora lavora in una cooperativa sociale come volontario e continua a scrivere le sue memorie.
Nessuno rivendicava il proprio passato, anzi c’è quasi una rimozione, accompagnata però da una ferma volontà di guardare avanti senza voltarsi indietro. Ho incontrato persone con grande dignità e voglia di riscatto chiedendo di lavorare perché “il lavoro dà dignità”.
Mi hanno detto che gli anni passano, ma la giornata è lunga e il senso di solitudine e la nostalgia della famiglia sono devastanti. Per sopravvivere è indispensabile mantenere il rispetto di sé e la propria dignità di uomo, anche se dentro pesa una fragilità nascosta, mascherata da atteggiamenti anche aggressivi o da un’ostentata sicurezza di sé.
Ma quello che pesa per un detenuto è l’indifferenza di chiunque varca la soglia del carcere, perché un saluto, una stretta di mano, un colloquio possono dare senso alla giornata, a quel tempo infinito che isola fisicamente e socialmente e che distrugge psicologicamente una persona, anche colpevole di reato, ma pur sempre una persona.
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