È davvero ora di cambiare, anche nel rapporto fra esseri umani e animali
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Nell’ultimo anno sono cambiate molte cose. Sono cambiate abitudini e certezze, è cambiato il modo in cui guardiamo al futuro e anche quello in cui consideriamo il passato. Ciò che definivamo “normalità” è risultato essere un concetto labile e volatile. Ne sentivamo parlare dei cambiamenti in atto, in relazione al clima, alle evoluzioni sociali, alle necessità di specie e ambienti, eppure restavano voci di nicchia, fino a quando una pandemia ci ha coinvolti tutti.
Stanno avvenendo anche cambiamenti culturali importanti: diamo più rilevanza alle emozioni in svariati ambienti, al benessere interiore, alla meditazione, si parla di relazione in più modalità. La connessione tra la responsabilità e la consapevolezza di sé e dell’altro, nell’ambiente in cui si vive, inizia a divenire evidente. La comunicazione tra l’essere umano, il mondo animale e quello vegetale ci mostra l’importanza di un cambiamento nei modelli di interscambio e di relazione.
Per questo io e la mia amica e collega Sonia abbiamo ideato il progetto “Col resto di due”, attualmente attivo come pagina social, dove condividiamo osservazioni e considerazioni nate dalla nostra esperienza sul campo e dai nostri studi. Il nostro intento è quello di spostare l’attenzione dal
pensiero lineare e utilitaristico a quello divergente e collaborativo, in particolare nella relazione con la diversità. Ci occupiamo di relazioni tra animali umani e tra l’essere umano e altre specie.
In questo ambito, che ha visto una fortissima evoluzione negli ultimi anni, c’è un’urgenza che diventa sempre più chiara: la necessità di cambiare paradigma. È da questa necessità che nel primo di questi articoli a due voci che andremo a scrivere, oggi vogliamo partire: la necessità di cambiare paradigma o forse semplicemente di non averne affatto, convinte che sia questa la strada da intraprendere per ritrovare la nostra vena animale e poter riconoscere quella altrui.
Ma cosa significa “cambiare paradigma”? Il paradigma è un modello di riferimento a cui ci affidiamo quando parliamo di un determinato argomento, è un termine di paragone. Ad oggi in ambito animale sono innumerevoli i paradigmi a cui ci affidiamo e di cui abbiamo bisogno. Ci servono per decodificare comportamenti, per dare spiegazioni, finanche per creare proiezioni.
La necessità di circoscrivere, di mettere etichette che in qualche misura ci rassicurano, ci fanno riconoscere un legame e sentire in sintonia con altre specie. È questo il primo passo verso la gabbia mentale in cui non solo releghiamo gli altri animali, ma in cui releghiamo anche noi stessi, le nostre
emozioni, il nostro ruolo. Ed è proprio il ruolo che assume un’importanza non secondaria nel nostro modo di relazionarci con gli animali non umani.
La cinofilia è un esempio illuminante di come la ricerca del ruolo determini il modo di vivere il cane. Addentrandoci, neanche troppo, in questo mondo si può arrivare a pensare che il cane esista grazie a noi, dimenticandoci invece che sulla terra la maggior parte dei cani vive liberi, senza una figura umana di riferimento.
Se guardiamo i dati da questa prospettiva c’è da domandarsi se davvero siano i cani ad avere bisogno di noi o se, al contrario, siamo noi ad avere la necessità di riconoscerci nella figura che il cane ci dà l’opportunità di esprimere: padre-padrone, guida, leader, coach, capobranco, madre e così via. Una figura di cui ci appropriamo con la forza e che lascia l’altro senza possibilità di reale rifiuto perché il rifiuto diventa automaticamente ai nostri occhi un problema – aggressività, fobia, iperattività o altro – da risolvere in fretta, possibilmente da altri, da smontare e in ultima istanza da allontanare, andando ad alimentare tutta quella mal gestione e quel mercato infame del più becero volontariato che alimenta cani viaggianti su e giù per l’Italia e riempie i canili.
E allora, forse, la sfida più grande e più urgente diventa distruggere vecchi paradigmi, che hanno la colpa di ricondurci a modelli di riferimento troppo vicini alle abitudini di un’epoca che ha perso contatto con la propria animalità. Riconoscere e accettare quello che è sotto ai nostri occhi senza averne timore, senza incatenarlo ai nostri bisogni, affiancandolo invece, alla scoperta dell’altro e di noi stessi, in una convivenza che si contamina ed evolve senza violenze fisiche ed emozionali.
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