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Camminare per le strade di Lubumbashi in pieno giorno, come alla sera, significa immergersi a piè pari in un mare di occhi attaccati alla pelle con una vena di morbosa attrazione, qualcosa che assomiglia molto ad uno stupore nostalgico in cui la fantasia porta le pupille a scoprire paesaggi lontani e solo vagamente immaginati.
Il bianco pallido della pelle sembra brillare di luce riflessa a tal punto da catalizzare l’attenzione in un vortice di parole senza suono, un rumore assordante fatto di legami che nascono e muoiono nello spazio dell’iride. Camminare non è più camminare, ma una cerimonia di vestizione attraverso cui bagnarsi di sentimenti diametralmente distanti ed indissolubilmente intrecciati tra loro.
Ira e pace, sogno e violenza, contatto e distanza, rancore e pulsione. Ogni sguardo cela l’angolo di un prisma in cui sono incise le verità di una contrapposizione che va ben al di là della cromatura naturale della pelle; un intreccio di zolle incrostate su cui germoglia e appassisce il germe antico di una relazione mai definita, ma anche mai nata ed allo stesso tempo mai terminata.
Essere bianco e mostrarlo, tra le strade sgangherate di uno dei paesi più poveri e ricchi del cuore d’Africa, significa allontanare i lembi di pelle della ferita centenaria nata tra le pieghe di una storia infame e inspiegabilmente trovarvi dentro un afflato di molle attrazione verso il carnefice, verso chi quella ferita l’ha aperta.
Essere bianco e mostrarlo, vivendo come una qualsiasi persona vivrebbe, tra mercati e passeggiate nelle periferie, incontri nei bar del centro e risate sguaiate agli angoli dei campi da calcio, è un gesto di sfida, un insulto, uno schiaffo al volto; ma è anche un terremoto della coscienza collettiva, un abbraccio, un’onda di colore sul paesaggio grigio dello status quo.
Vivere questa ambivalenza, quotidianamente, significa inevitabilmente sbattere gli occhi sulle risposte a quelle domande che la realtà caleidoscopica del posto sembra tentare di nascondere tra le capriole di nuvole polverose e di un tempo chiassoso e inestricabile. Il motivo di questa stessa ambivalenza è la prima domanda nascosta che sale in superficie accompagnata, in una sorta di filo escheriano, dalla risposta stessa.
La distanza e vicinanza tra le persone di pelle bianca e quelle di pelle nera nasce e vive nei cartelloni pubblicitari raffiguranti modelle europee, nelle sit-com pallide trasmesse dalle televisioni fuori produzione dei bar del centro, nei vestiti firmati dei giovinotti senza scuola, nelle parole prese in prestito da un inglese storpiato, trovato per sbaglio sulle etichette dei prodotti di consumo, nei racconti sognanti di chi ha visto con i propri occhi l’asfalto scintillante delle città europee ed è tornato per raccontarlo.
La città stessa, con il suo peccato primordiale di confusa mestizia, sembra essere appoggiata sull’esigenza ancestrale di trasmettere un impulso viscerale verso il bianco, il colore di Dio, il colore del male necessario, il colore dell’orizzonte. Nessuno può sottrarsene, è scritto ovunque ed è parte del tutto.
Nata dalla volontà di persone bianche durante l’occupazione belga, la città sembra racchiudere un filtro stregonesco capace di avvinghiare a sé i nuovi inquilini congolesi senza lasciare spazio ad una reale appropriazione. I bianchi non ci sono più, o almeno non se ne vedono in giro, ma vivono e sono presenti nel riflesso dei cittadini di pelle nera, nella loro speranza nostalgica di cambiare un destino già scritto facendolo speculare a quello di chi la città l’ha creata. Cosa ci sia di giusto in questa attrazione dannata e morbosa non lo so. Quello che so, dopo due mesi di convivenza, è che le conseguenze sono tragicamente chiare.
Il futuro, l’unico futuro possibile, passa attraverso la strada benedetta e dannata di una similitudine al parametro bianco; nessuna redenzione è possibile nella reminiscenza del potere catartico di una cultura locale millenaria, nessun domani può trovarsi in una riappropriazione sociale delle tradizioni e delle arti e delle speranze ancestrali. L’universalità delle opzioni possibili si raccorda con le visioni aperte dall’unico colore accettabile, un colore puro e tetro capace di far sbiadire l’essenza stessa del qui e ora, o, ancor di più, di un passato lontano e già sfocato.
Questa conseguenza condanna un popolo intero all’inconsistenza, all’evanescenza, alla costante e subdola rincorsa di un orizzonte al di fuori della portata dei propri occhi, inimmaginabile ed eppure indiscutibilmente presente. In questa evanescenza, non solo culturale, ma sociale e fintanto esistenziale, è facile per i rappresentanti della cultura bianca occupare gli spazi vuoti della vita pubblica, divenendo presenza invisibile ed allo stesso tempo palpabile di ogni ambito sociale, dall’economia alla politica, dall’arte all’urbanistica, dalla moda all’intrattenimento.
I luoghi della vita collettiva sono colonizzati costantemente, ancora oggi, in un gioco di aquiloni in cui mani nere e sporche di disperazione reggono stretti dei fili senza fine, lunghi e molli, che poi finiscono con i loro pennacchi colorati nello stesso continente che ne ha segnato la catastrofe.
Non serve ricordare quali benefici traiamo noi bianchi da tutto questo. Probabilmente, siamo a tal punto immersi nel nostro riflesso da non essere capaci nemmeno di distinguerne i contorni.
Il bianco riflesso diventa un’interpretazione legittima della nostra giustezza; il bianco riflesso perde la rigidezza di una imposizione trasformandosi nel prodotto di scelte consapevoli; il bianco riflesso incarna il ritmo naturale che la Storia ha scelto come scala cromatica alla base del proprio rincorrersi.
Questo avviene nella Repubblica Democratica del Congo come nella maggior parte dei paesi africani che hanno vissuto la violenza militare e culturale del colonialismo. La cancellazione dell’identità culturale è un fenomeno costante e penetrante che ostacola fino a inibire qualsiasi capacità di riappropriazione ideologica. Fintanto che questa storia nella Storia continua ad essere talmente accettata ed accettabile da vivere nascosta, convivremo con una natura umana e sociale incapace di incarnare il valore biologico della propria essenza e sopravvivenza: la diversità.
Prima riconosciamo la deriva suicida di questo processo di omologazione violento e tanto prima potremo allentare la morsa famelica su di un rapporto virale che ha condotto le vittime della dipendenza ad ammalarsi di una seria forma di sindrome di Stoccolma. Dal mio canto, continuerò a camminare tra le strade di Lubumbashi custodendo negli occhi la speranza timida di veder evaporare l’urgenza di rappresentare il colore di Dio.
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