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Sono passati quattro mesi dall’uscita ufficiale – su Infinity, il canale streaming di Mediaset – del mio documentario sui primi passi di Fridays For Future, il movimento studentesco ispirato dagli scioperi del venerdì di Greta Thunberg. Prodotto da Infinity Lab in collaborazione con Italia Che Cambia, Terra Nuova Edizioni e Baburka Production, è stato finanziato attraverso due crowdfunding – uno sulla piattaforma Ulule e l’altro su Produzioni dal Basso – e sostenuto da Banca Etica.
Nonostante l’uscita quasi contemporanea di “I am Greta” e di “Now”, altre due pellicole – realizzate con tutt’altri mezzi – che parlano delle proteste giovanili per l’ambiente e nonostante la pandemia di covid abbia causato l’annullamento di molte rassegne cinematografiche di prestigio, è stata una bella soddisfazione registrare l’interesse per “Ragazzi Irresponsabili” da parte di diversi tra i festival che sono riusciti a organizzare almeno proiezioni online.
Presentato in anteprima alla 50esima edizione del Giffoni Film Festival all’interno della Masterclass Giffoni Impact, alla quale era presente anche il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa, nei suoi primi mesi di distribuzione il documentario è stato infatti selezionato da altri festival di rilievo internazionale quali Cinemambiente Torino – una delle più importanti rassegne europee di cinema ambientale – il Green Movie Festival di Roma, il Varese International Film Festival e altri.
Oltre a quelli cinematografici, Ragazzi Irresponsabili (il cui titolo cita la frase rivolta da Greta Thunberg ai membri del Parlamento Europeo riunito ad ascoltarla nell’aprile del 2019) ha stimolato la curiosità anche di eventi di altra natura, nonché di diverse scuole e organizzazioni no profit. Ad esempio è stato proiettato a Bari il 12 febbraio nell’ambito di un ciclo di incontri su giovani e ambiente organizzato dal Centro per la Legalità e la Nonviolenza Antonino Caponnetto del capoluogo pugliese e introdotto dal sottoscritto insieme ai ragazzi di Fridays for Future Bari.
A proposito dei ragazzi dei Fridays, c’è da dire che in Italia il Movimento ha percorso molta strada dal periodo della mobilitazione iniziale, entusiasta e chiassosa, di cui si parla nel film. Un po’ perché costretti dalle normative anti-covid a individuare forme di comunicazione alternative alla piazza, ma soprattutto per la mancanza di volontà da parte dei media a tenere alta l’attenzione sui temi quando smettono di essere vendibili con l’etichetta della “novità” (come se l’emergenza climatica avesse lo stesso ciclo di vita di un modello di smartphone), i Fridays hanno oggettivamente perso parte della loro capacità di coinvolgimento del primo anno.
D’altro canto, complici la collaborazione con altri movimenti che promuovono svolte radicali nella società (come Extinction Rebellion) e la maturazione intrinseca del progetto, hanno guadagnato credito sempre più ampio nella fase di proposta. Già più volte invitati a partecipare ai lavori delle istituzioni – a partire dalle audizioni presso le Commissioni Parlamentari fino all’incontro con il Governo durante gli Stati Generali dell’Economia del giugno scorso – i ragazzi dei Fridays si sono contraddistinti in questi mesi non soltanto come interlocutori credibili e preparati, ma anche come una vera e propria spina nel fianco della politica. Politica che, a prescindere dagli schieramenti, spesso e volentieri ha provato a portarli dalla sua parte senza meritarlo. Una tattica infruttuosa, tuttavia, visto che non ha mai trovato nessuna sponda sul versante del Movimento, se non a seguito di iniziative concrete (ad esempio il cosiddetto “superbonus”, ossia la detrazione del 110% per le spese di efficientamento energetico degli edifici).
Fra le tante battaglie sulle quali Fridays For Future è impegnato in questi mesi, ne segnalo tre.
Anzitutto la recentissima ECI (Iniziativa dei Cittadini Europei) per l’istituzione del border carbon adjustment, ossia un meccanismo di imposizione fiscale che tassi i prodotti importati nell’UE in base alla quantità di gas serra emessi per la loro produzione, rendendo così più vantaggioso l’acquisto di beni sostenibili. Io ci ho messo appena 41 secondi per firmare l’iniziativa, che ha già superato le 85mila adesioni ma che ha bisogno di arrivare a un milione di firme entro il 23 giugno. Se pensate di essere più rapidi di me e di firmare in meno di 40 secondi cliccate su https://eci.fridaysforfuture.org/it/ e fatemi sapere.
La seconda battaglia, non meno importante, è la campagna europea “Ritira la PAC” (#WithdrawTheCap), ossia la severa critica alla nuova proposta di PAC (Politica Agricola Comunitaria) della Commissione Europea, che distribuisce enormi incentivi (390 miliardi di euro in 7 anni) avvantaggiando le grandi aziende agricole rispetto a quelle, mediamente più piccole, che praticano metodi colturali naturali, rispettosi della biodiversità e a minor impatto in termini di emissioni.
Infine, vi segnalo la campagna Non Fossilizziamoci – in corso già da diversi mesi – sull’elaborazione del Recovery Plan, ossia la versione italiana del piano di stimolo alla struttura produttiva nazionale dopo la pandemia. Secondo i ragazzi dei Fridays, infatti, l’attuale bozza del piano non è sufficiente a garantire un’effettiva transizione ecologica dell’economia. Parere confortato dall’analisi di Vivid Economics, uno dei più accreditati istituti per l’analisi delle politiche ambientali nel mondo, che assegna al pacchetto in via di definizione in Italia (così come a quello di altri grandi Paesi, tra cui USA, Giappone e Australia) un punteggio assai inferiore rispetto a quello ottenuto dalla media dei Paesi Europei.
Oltre al potenziamento della fase di proposta, l’evoluzione di Fridays For Future ha comportato anche altri mutamenti rispetto alla prima fase di mobilitazione dei “ragazzi irresponsabili”. Ve ne cito due che mi sembrano i più importanti.
Il primo mutamento è l’abbandono del focus sui piccoli gesti individuali (ridurre i rifiuti, evitare consumi inutili, spesa consapevole, autoproduzione, risparmio etico, ecc.) a favore delle azioni contro i responsabili principali della crisi, in primis la politica e le multinazionali (a cominciare dalle aziende del fossile). Articoli come quello della scrittrice e ambientalista americana Mary Annaïse Heglar dall’eloquente titolo “Non mi importa se fai la differenziata” pubblicati sul sito di Fridays For Future Italia, hanno contribuito a risolvere nel Movimento l’annosa querelle di buona parte delle organizzazioni ambientaliste su quale delle due strategie sia prioritaria.
Mi domando, però, se questa scelta strategica sia effettivamente la più opportuna. Perché è vero che il tempo residuo per diminuire le emissioni climalteranti in maniera da scongiurare il superamento del punto di non ritorno è pochissimo (la comunità scientifica lo ha fissato al 2030); ed è vero che questa urgenza impone una concentrazione degli sforzi verso i grandi cambiamenti macroeconomici, visto che il cambiamento che può nascere dagli sforzi individuali ha bisogno di tempi più lunghi. Ma è vero anche che l’approvazione di provvedimenti orientati alla (ri)costruzione di una società sostenibile porterà a una tale trasformazione degli stili di vita che sarà impossibile renderli accettabili a tutti senza colpo ferire.
Mi spiego meglio. Tassare una t-shirt proveniente dalla Cina o una pera proveniente dall’Argentina per essere state prodotte e/o trasportate con elevate emissioni di gas serra (cosa sacrosanta in ottica di border carbon adjustment) e contemporaneamente detassare le stesse cose prodotte in loco e in maniera sostenibile, comporta in ogni caso un incremento del prezzo che il consumatore medio dovrà pagare per acquistare sia la t-shirt che la pera. Questo perché, senza la variazione di altri fattori (ad esempio il costo del lavoro), la diminuzione del prezzo dei prodotti più sostenibili sarebbe plausibilmente inferiore all’aumento del costo dei beni importati. Per quanto tu possa detassare una t-shirt made in Italy, infatti, non arriverà mai a costare 5 euro come quelle cinesi.
Ebbene, una politica del genere, applicata su vasta scala, rischierebbe di avere un effetto inflattivo e di creare forti tensioni sociali se non venisse preceduta o accompagnata da un deciso rafforzamento delle campagne di sensibilizzazione sui gesti individuali virtuosi (riduzione selettiva dei consumi, diminuzione degli sprechi, rimozione dell’obsolescenza percepita, riuso, riciclo, ecc.). Questi gesti, alla portata di tutti, sono importanti non tanto per quanto riescono effettivamente a ridurre la pressione sull’ambiente (molto meno dei grandi cambiamenti macroeconomici, come dicevo), ma soprattutto perché capaci – specie se promossi dalle nuove generazioni – di restituire una visione, rendendo immaginabile, e quindi emotivamente più raggiungibile, un futuro equo e sostenibile.
Tale visione, nonostante gli scioperi di massa del 2019, oggi appartiene ancora a pochi privilegiati, a fronte di una porzione di umanità di gran lunga più grande che continua a guardare, nelle proprie scelte di consumo, esclusivamente al prezzo, alla comodità, alla moda e (per il cibo) al gusto. La transizione ecologica, perciò, senza un adeguato approccio culturale alla questione rischia di continuare a essere un fenomeno borghese, comprensibile solo alle classi agiate e a quei (pochi) cittadini che, a prescindere dal loro status sociale, sono coinvolti nelle battaglie politiche.
Senza campagne informative potenti su quanto sia semplice, sano e perfino bello per una famiglia adottare stili di vita più sostenibili, quali leader politici andranno fino in fondo nell’approvazione di provvedimenti talmente impopolari che finirebbero realisticamente per erodere il proprio consenso? Quali aziende decideranno di produrre e distribuire riducendo le emissioni prima che la domanda di beni sostenibili superi i limitati confini della sua nicchia b&b (buonista e borghese)? Le possibilità che l’attuale proposta di PAC venga effettivamente ritirata sarebbero più o meno alte se la quota di mercato destinata al consumo sostenibile salisse in breve tempo al 10% rispetto al misero 3% attuale (dato ISMEA riferito al mercato del biologico nel 2019)?
Personalmente credo sia necessario che tutti i movimenti ambientalisti – e quindi anche Fridays For Future – affianchino alle prioritarie campagne per le macroriforme economiche, azioni volte alla sensibilizzazione su come ciascuno di noi può contribuire ogni giorno col proprio impegno, in qualsiasi luogo si trovi, alla costruzione di un mondo nuovo. Ha ragione Luca Sardo di Fridays For Future Torino nel documentario, quando afferma che solo la contemporanea presenza di entrambe le fasi è in grado di produrre risultati sufficientemente rapidi (e socialmente accettabili, aggiungo io). È per questo che “non basta un gesto, quindi insisto e manifesto”, canta Zoe Tartaro di Fridays For Future Firenze nel brano “No planet B” che scorre sui titoli di coda del film.
L’altro mutamento in Fridays For Future riguarda i soggetti attivi, ossia i volti che rappresentano oggi il Movimento. Accanto a uno zoccolo duro di ragazzi impegnati fin dalla prima ora, infatti, altri si sono attivati o si sono messi in luce successivamente, dando il cambio a coloro i quali, nel frattempo, per diverse ragioni hanno scelto di mollare. Sebbene alcuni degli attivisti attuali tendano a considerare il disimpegno di alcune figure “storiche” quasi come una sorta di tradimento, io sono convinto che un ricambio di questo tipo – rapido e costante – sia fisiologico in un movimento composto da giovani donne e uomini alle prese ogni giorno con la progressiva maturazione della propria personalità e con scelte di vita che ne condizioneranno il cammino futuro.
Prova ne sia il fatto che diversi dei protagonisti del mio film, che nel 2019 avevo scelto proprio per la costanza e l’intensità dell’impegno, non sono più attivi nel Movimento (o lo sono molto meno). Fra loro, però, nessuno è andato a lavorare per qualche grande e inquinante multinazionale. C’è chi ha iniziato a collaborare con organizzazioni internazionali per la ricerca di soluzioni sostenibili al ciclo di produzione dei tessuti; chi ha fondato un’associazione che si occupa di promuovere l’agricoltura rigenerativa in Italia; chi ha deciso di recarsi all’estero a fare esperienza di volontariato trasformando il proprio attivismo in uno “stile di vita profondo”, e così via. Qualche anno dopo il ’68, Antonello Venditti cantava “compagno di scuola, ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?” Ecco, secondo me l’importante è che questi ragazzi, qualsiasi sia la strada che sceglieranno di percorrere, continuino a restare fuori dalla banca.
A proposito, a chi non avesse ancora visto Ragazzi Irresponsabili, ricordo che il film è disponibile in streaming su Infinity, canale che, qualora non foste abbonati, è possibile guardare gratis per una settimana semplicemente sottoscrivendo l’offerta di prova.
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