Il modello islandese: una risposta al metodo SanPa per il contrasto alle dipendenze
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Come allora, così oggi, “SanPa” fa discutere. La serie Netflix che racconta nascita, ascesa e caduta della comunità di recupero per tossicodipendenti di San Patrignano, la più grande d’Europa, nonché del suo eccentrico leader e fondatore Vincenzo Muccioli, è da settimane al centro del dibattito.
Meno, molto meno, si parla dell’esistenza di altri modelli, ben più funzionali, per affrontare il fenomeno delle dipendenze giovanili. E di uno in particolare, quello islandese, poco conosciuto alle nostre latitudini ma che ha ottenuto risultati decisamente interessanti. Dunque, quale migliore occasione di questa “onda lunga” che rende benevoli gli algoritmi di Google e di Facebook per far conoscere uno degli esperimenti meglio riusciti degli ultimi anni nel ridurre i tassi di dipendenze?
Il “modello Sanpa” e il “modello islandese” sono due modi molto diversi, per molti versi opposti, di affrontare la problematica. Il primo agisce sul sintomo, tamponando una situazione di emergenza: siamo sul finire degli anni Settanta e nel nostro paese è appena esploso il fenomeno della tossicodipendenza che spacca la società e ne trascina interi pezzi nel baratro. Lo Stato è attonito e assente, le famiglie impotenti, una sola persona sembra avere le idee chiare: è un imprenditore di 45 anni, Vincenzo Muccioli, che vuole prendersi cura dei ragazzi portandoli a vivere in una comunità isolata per poi trattenerceli, anche con la forza.
Il modello islandese invece, pur intervenendo su una situazione di emergenza (a onor del vero, meno grave di quella italiana) punta alla radice del problema, agendo sui fattori che sono all’origine del fenomeno. Vediamo come.
L’esperimento islandese
Quando nel 1999 lo European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs (ESPAD) realizzò un sondaggio sul consumo di alcool, sigarette e sostanze illecite da parte delle ragazze e i ragazzi europei, emerse che il 25% degli studenti islandesi fra i 15 e i 16 anni fumava sigarette, il 19% si ubriacava con una certa frequenza e il 16% aveva sperimentato almeno una volta una sostanza illecita.
Non erano numeri catastrofici, intendiamoci: erano perlopiù in linea con la media europea, spesso anche decisamente sotto. Tuttavia per uno stato che ha gli stessi abitanti di Bari sparsi su una superficie grande un terzo dell’Italia, in cui chiunque è zio, nipote o biscugino di quasi chiunque altro, anche numeri relativamente bassi possono considerarsi un grosso problema sociale. Ecco dunque che lo stato islandese decide di dare avvio al progetto “Youth in Iceland”.
L’esperimento si basa sugli studi di uno psicologo statunitense fin lì non particolarmente noto, Harvey Milkman, professore alla Metropolitan State University of Denver e all’Università di Reykjavik, che da anni conduceva ricerche approfondite sulle dipendenze. Secondo Milkman le dipendenze avrebbero a che fare con lo stress, l’ansia e la capacità degli individui di gestire correttamente questi due stati d’animo. Più nello specifico, si tratterebbe di tentativi di adattamento disfunzionali, con sostanze diverse associate a risposte adattive differenti.
Gli studi di Milkman si basavano a loro volta sulle ricerche di un altro famoso psicologo, Bruce Alexander, che a partire dagli anni Settanta ha rivoluzionato le credenze sulle dipendenze, dimostrando che – tanto nei ratti di laboratorio quanto negli esseri umani – le relazioni sociali sono un antidoto quasi magico alla dipendenza da sostanze psicotrope (ma anche dal gioco, dalla pornografia e da molto altro). In altre parole, il fenomeno della dipendenza sarebbe generato molto più dai processi interiori degli individui e dal contesto relazionale in cui sono immersi che dagli agenti chimici delle sostanze.
L’Islanda quindi scelse di adottare un modello di prevenzione basato sulla comunità (community-based), che migliorando gli stili di vita e la qualità delle relazioni sociali e familiari riducesse al minimo la possibilità dei più giovani di incappare nell’uso di sostanze psicotrope e – nel caso – di diventarne dipendenti.
Il progetto fu avviato nel 1997. Se da un lato vennero prese alcune misure “restrittive”, per arginare il fenomeno, come il divieto di vendita di alcolici e sigarette ai minori – rispettivamente – di 20 e 18 anni, il divieto di pubblicizzare questi prodotti o il “coprifuoco” invernale alle 22 ed estivo alle 24 per i minori di 16 anni, il cuore dell’esperimento risiedeva nei suoi aspetti propositivi. “Youth in Iceland” coinvolse le scuole e i genitori affidando loro un ruolo fondamentale nel percorso preventivo.
Le istituzioni scolastiche ricevettero ingenti finanziamenti per svolgere attività sportive e artistiche extracurriculari, mentre le famiglie furono incentivate economicamente per consentire ai figli di svolgere corsi e sport nelle ore pomeridiane. Soprattutto le famiglie a basso reddito ricevettero incentivi per inserire i propri figli in gruppi sportivi, artistici e culturali, in modo che tutti avessero modo di sentirsi parte di un gruppo e sentirsi bene senza bisogno di fare uso di droghe. I genitori furono anche invitati ad aumentare la quantità di ore spese assieme ai propri figli e migliorarne la qualità. Tutto era teso a rendere le vite degli adolescenti piene e soddisfacenti, contornate di relazioni solide e di fiducia.
Risultati sbalorditivi
Come previsto, i tassi di uso e abuso di sostanze calarono vertiginosamente. Secondo ripetute ricerche sugli studenti, l’abitudine di fumare sigarette è scesa dal 17% del 1997 all’1,6% del 2014 e nella stessa finestra di tempo gli episodi di ubriachezza sono calati dal 30% al 3,6% e l’uso di sostanze psicotrope ha avuto una discesa simile. Al contrario, la percentuale di bambini e ragazzi che affermavano di trascorrere buona parte del fine settimana assieme ai genitori è raddoppiata (dal 23% al 46%), al pari della percentuale di chi partecipa ad attività sportive organizzate per almeno quattro volte a settimana (dal 24% al 42%).
Dal punto di vista scientifico è necessario mantenere una certa cautela nella lettura dei dati: non essendoci serie di dati disponibili negli anni precedenti all’introduzione di “Youth in Iceland”, non si può escludere che ci siano altri fattori che hanno influito sui risultati, non considerati negli studi. Ma al netto di un certo margine d’incertezza, l’esperimento può essere considerato un successo. Al punto che vari paesi stanno cercando di emularlo.
Nel 2005 altri Paesi d’Europa hanno dato il via al programma “Youth in Europe”, promosso dall’organizzazione European Cities Against Drugs (ECAD) che prevede esperimenti in diverse città. Di queste, fra l’altro, molte hanno un numero di abitanti decisamente più elevato di quello dell’intera Islanda (San Pietroburgo, ad esempio, ha più di 5 milioni di abitanti, contro i 360mila dell’isola). I risultati di questi esperimenti permetteranno di rafforzare ulteriormente o smentire parzialmente quelli ottenuti in Islanda.
Soluzioni sintomatiche e soluzioni strutturali
Ogni problema ha due tipi soluzioni, sintomatico o strutturale. Ne è convinto Peter Senge, scienziato dei sistemi e professore al MIT di Boston, autore de “La quinta disciplina: l’arte e la pratica dell’apprendimento organizzativo”. Le soluzioni sintomatiche agiscono sul sintomo, sull’aspetto visibile del problema. Non sono in sé sbagliate, anzi, spesso sono indispensabili per arginare le situazioni di emergenza. Se dai rubinetti di casa mia iniziasse a uscire un liquido rosso invece dell’acqua potabile, la prima cosa da fare sarebbe smettere di berla.
L’inconveniente delle soluzioni sintomatiche è che spesso non risolvono i problemi. Vanno più che bene (e sono sufficienti) quando il sintomo è frutto di circostanze casuali e irripetibili, ma mostrano i loro limiti quando dipende da variabili presenti strutturalmente nel sistema. In quel caso, le soluzioni strutturali funzionano molto meglio.
In ambito medico/psicologico si parla, in tal senso, di prevenzione primaria, secondaria o terziaria. Con la prima si intendono soluzioni “stile-Islanda”, in cui si interviene a monte, sulle radici contestuali dei problemi (in tal caso è detta “proattiva”) o sulle modalità di reazione/adattamento al contesto da parte delle persone (in questo caso è definita “reattiva”). La prevenzione secondaria agisce invece sul limitare gli effetti dannosi di un problema prima della definitiva insorgenza, mentre quella terziaria sul limitarne i sintomi più dannosi.
Il modello Sanpa e l’esperimento islandese sono esempi lampanti di due metodi opposti di affrontare un problema. Il primo è una risposta istintiva, disperata e poco funzionale (non vi dico altro per evitare gli spoiler) all’improvvisa esplosione del fenomeno della tossicodipendenza nel nostro paese. Il secondo è un tentativo riuscito di cambiare il contesto che ne favorisce l’emersione.
Il confronto fra i risultati è impietoso. Mentre in Islanda i tassi di dipendenza crollavano, nel nostro paese la situazione è cambiata molto meno. Secondo l’Osservatorio Europeo sulle droghe nel 2019 il 20% dei giovani tra i 15 e i 34 anni ha consumato frequentemente alcolici, il 16% fuma e il 19% ha consumato cannabis nell’arco di un anno. Inoltre circa la metà dei minori di 19 anni gioca d’azzardo almeno una volta all’anno.
Va detto che nel frattempo anche da noi sono migliorati i percorsi di accoglienza e riabilitazione delle persone tossicodipendenti e si sono sviluppate anche eccellenze nel campo della cura; ma si tratta sempre di soluzioni sintomatiche, mentre sono poche e delimitate le soluzioni strutturali sperimentate in questi anni.
I contesti italiano e islandese saranno forse molto diversi (obiezione classica quando si parla d’Islanda e anche su questo ce ne sarebbero di cose da dire) ed è probabile che non si possa fare copia-incolla dell’esperimento islandese e trasportarlo alle nostre latitudini, ma il concetto di base non varia. Se non si cambiano le condizioni che stanno all’origine di un fenomeno, difficilmente lo vedremo scomparire. Vale per le dipendenze, ma anche per tutto il resto.
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