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Torino - Ho varcato “realmente” la soglia nel settembre 2011. In precedenza portavo in carcere una volta all’anno i miei studenti esterni per assistere alle attività teatrali dei detenuti o per partecipare a qualche progetto carcerario. Mi ero laureata tanti anni prima in lettere classiche e da allora avevo sempre insegnato al liceo.
In quella data il mio istituto aveva attivato un corso di scuola superiore nel carcere cittadino e avevo scelto di concludere la mia carriera professionale con l’esperienza della scuola ristretta, che si è rivelata – per come l’ho vissuta – faticosa e insieme educativa: ho infatti conosciuto la complessità di questa realtà attraverso la soggettività del mio sguardo e del mio ruolo, ma anche grazie a un intenso lavoro di formazione sul campo.
Ho insegnato lettere e coordinato le attività della scuola in tutti i circuiti del carcere (media sicurezza, protetti, alta sicurezza) fino al momento del pensionamento, il 1° settembre 2019. Oggi partecipo come volontaria alle attività educative e ai progetti della scuola. Che cosa ho imparato in questi lunghi anni di full immersion in galera (perché di full immersion si tratta, come ben sanno tutti i docenti seriamente motivati coinvolti in questo tipo di lavoro…) ? Ho capito che l’attenzione per il “sistema-carcere” cresce (anche nel bene). Le componenti illuminate della ricerca e delle istituzioni fanno progredire il livello del dibattito. Le componenti illuminate della società civile seguono, si informano, condividono, recepiscono.
Al di là delle buone intenzioni dei singoli, gli operatori penitenziari, in primis i Direttori, si trovano però a dover agire in un sistema ancora feudale per via dei molteplici centri di potere e delle tendenze centrifughe che lo stesso sistema produce. Per questo il sistema carcerario italiano è ancor oggi, almeno nella realtà che mi si è presentata ogni giorno sotto gli occhi, la summa di molte contraddizioni. Da un lato, infatti, abbiamo di fronte il rapporto del carcere con l’esterno: grandi energie che si muovono da fuori e da dentro, intelligenze che si spendono per creare occasioni di formazione e di pari opportunità, di inclusione, di coscienza civica e di integrazione.
Dal lato opposto della medaglia c’è il dentro/dentro, un sistema scandalosamente dispendioso in rapporto ai risultati, in cui si gioca una partita a guardie e ladri che non finisce mai – sospesa fuori dal tempo e dallo spazio del mondo reale –, una partita giocata da ciascuno nel ruolo che il sistema pirandelliano, ma forse sarebbe meglio dire kafkiano, gli ha assegnato.
Questo sistema, come ormai tutti sanno, produce una recidiva altissima, crea delinquenza nuova, trasforma il reo (l’oppressore manzoniano) in oppresso, genera rabbia e perenne frustrazione, alimenta un quotidiano e pernicioso vittimismo, trasforma i debitori in creditori e naviga in direzione assolutamente contraria rispetto al sano e primario obiettivo della “presa di consapevolezza”: ecco perché le nostre sezioni carcerarie sono e saranno vivai dell’ Isis tra gli extracomunitari del penale e di nuove alleanze criminali associative nell’alta sicurezza.
Il carcere è una macchina patogena (parole del senatore Luigi Manconi), che corrode sorvegliati e sorveglianti e riesce a stancare – nel ripetersi logorante delle prassi quotidiane – anche le personalità più determinate e agguerrite. Ho sempre pensato che la scuola ristretta non debba essere “buona” nel senso di “facile”, perché deve insegnare la disciplina del lavoro quotidiano, il rigore del rispetto delle regole, l’umiltà della consapevolezza dei propri limiti contro la tentazione onnipresente del narcisismo e dell’egocentrismo, la capacità di autocontrollo nell’affrontare la frustrazione degli insuccessi o dei risultati non immediati.
Ho ripetuto spesso ai miei studenti: «Voi non dovete essere una specie protetta … perciò io ho il dovere di pretendere da ciascuno di voi secondo le sue possibilità». Però c’è una condizione necessaria: prima di esigere il giusto, si deve rendere tutto questo possibile, cambiando l’idea stessa di come pensiamo il carcere e la pena.
Perché io credo che esperienze formative forti possano far aprire gli occhi alle persone, dare loro un’altra possibilità, anche se cambiare è molto difficile per i tanti fattori oggettivi esterni che dentro e fuori ostacolano ogni trasformazione interiore. Ci credo. Altrimenti che cosa ci faccio qui?
Ogni tanto vacillo… ma non ho perso la speranza e ancora continuo a credere nel possibile cambiamento.
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