Vita e lavoro in una comunità psichiatrica. Intervista all’educatore Daniele De Bacco
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Biella - A volte le persone più vicine a noi hanno storie da raccontare che mai ci aspetteremmo. Anche in un legame di amicizia è più semplice conoscere solo il primo strato dell’altro, quello più superficiale. Se poi si viaggia più in profondità si viene a contatto con vicende, anche di vita quotidiana, che mostrano un lato più nascosto di un individuo o del mondo che ci circonda. L’ho provato sulla mia pelle con Daniele De Bacco (nella foto di copertina), il mio primo amico, “compagno di classe” fin dall’asilo, un educatore di 29 anni che vive a Camburzano in provincia di Biella.
Da anni, dopo aver conseguito la specifica laurea all’Università degli Studi di Torino, lavora a Casa PratoVerde, una comunità residenziale ad alta protezione di Vigliano Biellese concessa in gestione alla Anteo Cooperativa Sociale Onlus, che l’ha avviata nell’anno 2004.
In alcune nostre conversazioni ho ascoltato, nel tempo, episodi o riflessioni inerenti al suo ambito lavorativo, ma non ho mai conosciuto i dettagli del suo operato e di quel contesto così nascosto. Delle comunità psichiatriche si parla poco, come se fosse un tabù sociale affrontare un argomento così delicato. Poi l’idea di questa intervista, nata per mettere in luce questo mondo troppo poco conosciuto.
Daniele, partiamo dal tuo contesto lavorativo. Quali patologie hanno i pazienti? Descrivi le tue mansioni?
Le patologie sono tutte nell’ambito della malattia psichiatrica. C’è chi è schizofrenico, chi ha un disturbo borderline, ovvero persone che non sono in grado di gestire i loro pensieri in una maniera funzionale e strutturata riguardo la relazione, chi è paranoide e/o ossessivo compulsivo con disturbi sociali e comportamentali, chi è bulimico o anoressico. Ci sono differenti gradi di coscienza della malattia: qualcuno si rende conto di essere malato e sa di aver bisogno di aiuto, altri si sono costruiti un immaginario fittizio in cui è quasi impossibile entrare. Ci sono casi di realtà distorta in cui i pazienti si costruiscono una vita a parte. Con qualcuno non può nemmeno esserci uno scambio verbale, con altri c’è margine. La mia mansione, in generale, è adattarsi alla patologia del paziente. Dipende dalla persona, non c’è un unico modo di lavorare: con qualcuno il massimo che puoi raggiungere è un sorriso di qualche secondo, con altri puoi intraprendere percorsi riabilitativi, soprattutto nei più giovani. Spesso, però, la componente patologica è grave e ci vogliono anni per trovare la terapia farmacologica adatta e che porti dei risultati.
Delinei la tua “giornata tipo” in struttura?
Le giornate sono tutte diverse tra loro. Prendendo come esempio il turno del mattino, si comincia con il bagno a coloro che non riescono a lavarsi autonomamente, poi, dopo averli vestiti, si fa assistenza e si prepara la colazione. Se la situazione è calma l’educatore organizza e propone attività, come leggere un libro, fare l’orto, disegnare o fare una passeggiata, per citare alcuni esempi. Se invece un paziente ha una crisi si passa del tempo con lui e lo si supporta per provare a superare il suo malessere. Dopo serviamo il pranzo e puliamo, mentre nel turno del pomeriggio programmiamo attività ricreative, tra musica, aerobica e commissioni per chi può uscire dalla struttura. Alla sera si continua con la cena e la messa a letto, mentre a seguire noi operatori lavoriamo al computer su nuovi progetti. Durante tutta la giornata la priorità viene sempre data alle crisi, che si protraggono spesso per ore e risultano anche contagiose su altri pazienti. Queste crisi possono essere di pianto, altre pantoclastiche, che portano a volere distruggere oggetti senza controllo; non solo, causano comportamenti autolesivi o violenti contro gli altri pazienti o con noi operatori, spesso con aggressività verbale.
Stando a stretto contatto con fragilità emotive ogni giorno come riesci a controllare e gestire situazioni così delicate per l’intero turno?
Il carattere conta, bisogna avere molta logica e pazienza. Spesso i pazienti istigano e cercano di offendere, perché sfogano la loro rabbia su noi operatori. Siamo un contenitore nel quale riversano il loro malessere, che si manifesta in primis in un linguaggio inappropriato. Poi è fondamentale il supporto dei colleghi, perché sapere di contare su altri professionisti è fondamentale. Uno dei fattori più rilevanti che mi permette di gestire situazioni complesse è comunque la vocazione, come operatore, di aiutare gli altri.
Spesso il curato dimostra gratitudine verso il curante, ma nel tuo caso è molto più raro. Come ti fa sentire questa rarità di riconoscenza?
È una situazione che s’impara a gestire. Spesso la riconoscenza viene data dai casi più gravi: a volte, un semplice “grazie” da parte dei pazienti o dei loro familiari ci dà forza. Possono sembrare piccoli segnali, ma sono molto significativi. C’è anche da considerare che ci sono casi talmente destrutturati che non riescono a dare il giusto valore all’altro: spesso c’è tendenza a vedere solo se stessi, frutto di un conflitto interiore costante e di un egocentrismo dettato dalla malattia mentale.
A tuo avviso c’è uno strumento o un sostegno specifico che potrebbe supportare i pazienti in un percorso di crescita individuale? Un processo artistico che si articola attraverso la musica o il disegno può avere una funzione terapeutica?
In genere sì, ma con i casi gravi risulta più complesso. Le attività che svolgiamo possono essere d’aiuto, come i momenti dedicati ai libri: in gruppo facciamo leggere a ognuno un paragrafo di una storia, poi chiediamo di rappresentare qualcosa inerente alla narrazione appena trattata. Attraverso il disegno loro danno sfogo all’umore del momento – come si denota anche dal tratto utilizzato – ed è un modo di riflettere la loro sofferenza. L’arte aiuta quindi a manifestare e ad esprimere lo stato mentale del paziente e sicuramente nei casi meno gravi i benefici sarebbero maggiori. Sulla scia di questa attività abbiamo partecipato al concorso ‘C’era una volta un virus…’ rivolto e indetto dalle strutture Anteo di Italia, che prevedeva di realizzare una favola sul tema del Covid-19. Dieci pazienti hanno scritto un componimento e io ho messo insieme tutti i contributi per poi elaborare una poesia in rima intitolata “L’avventura del mago Pirlì”, uno per ogni strofa. Ci siamo classificati secondi, è stata una grande soddisfazione per tutti.
Perché hai scelto di intraprendere questo percorso professionale? Hai un consiglio da rivolgere a coloro che desiderano seguire la tua stessa strada lavorativa?
Io l’ho scelta probabilmente da quando è nato Simone, mio fratello più giovane con la sindrome di down. Con lui sono stato catapultato nel mondo del bisogno e mi sono reso conto che ci sono persone che non hanno strumenti per affrontare le difficoltà e hanno necessità di qualcuno che gli stia a fianco. Poi ho fatto questa scelta perché la mente umana mi ha sempre affascinato.
Il consiglio che darei a chi vuole intraprendere un percorso come il mio è di essere pronti a scontrarsi con la disillusione: quando si studia sui libri si parte coi migliori propositi, ma poi la realtà nuda e cruda ti fa capire che ci sono limiti personali, dei pazienti, sociali, fisici e farmacologici a cui far fronte. Esistono barriere, ma è importante sapersi infilare nelle piccole brecce che si aprono. Questo ambiente è allo stesso tempo stimolante e frustrante, perché speri di aiutare i malati, ma non sempre si riesce come vorremmo. Devi essere bravo a trovare le motivazioni per dare sempre il meglio per loro.
Nella tua sfera familiare ti sei quindi rapportato con la situazione di fragilità di tuo fratello. Quanto ti ha fatto crescere Simone come uomo e come operatore?
È stato determinante, non fosse nato con la sindrome di down avrei fatto tutt’altro nella vita. Forse non sarei stato interessato al mio percorso attuale, anche se ritengo di essere predisposto a questo impiego. Come operatore mi ha dato la spinta per iniziare, ma impari a fare questo lavoro vivendolo tutti i giorni.
Come persona credo che mi abbia aiutato tanto: quando ti trovi faccia a faccia con le difficoltà vere ti fai delle domande importanti che ti aiutano a vedere la realtà in maniera più cruda, fino a sapere dare il giusto valore alle cose.
In tempo di Covid-19 le possibilità di contatto dei pazienti coi propri cari sono sensibilmente diminuite. Quale impatto ha avuto la pandemia nelle loro relazioni?
Alcuni non hanno tuttora capito il perché di questa situazione di emergenza sanitaria, altri sono tristi di non poter vedere i familiari o andare a casa ogni tanto. In quest’ottica, è stato importante mantenere almeno una visita costante con i loro cari seguendo tutte le norme.
Spesso sono i film a costruire l’immagine sociale delle comunità psichiatriche. Le narrazioni cinematografiche o televisive le trovi in linea o distanti dalla realtà?
Nei film viene data solitamente una visione distorta, a volte fanno sembrare che i pazienti non siano umani. I malati, in realtà, sono molto intelligenti, hanno coscienza di loro stessi e spesso hanno sprazzi di lucidità. Ad esempio, abbiamo persone che conoscono molte lingue e altri hanno competenze professionali maturate prima della loro patologia. La malattia non cancella totalmente la persona che sei, anzi: la componente passata incide sulle loro vite, perché si rendono conto di quello che erano e di quello che non possono più essere.
Finora hai rivelato il tuo apporto in struttura, ma cosa danno i pazienti a te? Cosa ti hanno lasciato i 4 anni di lavoro come educatore?
A me danno quelle che definisco “piccole vittorie”, sono rare ma quando capitano donano grande gratificazione. Basta un “grazie”, un sorriso, un “ti voglio bene”, un abbraccio. È emozionante saper di aver dato un piccolo momento di gioia. Questo lavoro è un’esperienza che ti cambia: arrivi ad avere una visione diversa sul mondo e impari a non dare peso a futilità e a rivalutare le cose davvero importanti.
Dopo i turni come trovare un equilibrio emotivo?
Cerco di separare il lavoro dalla vita privata, ma non è facile perché è un’esperienza totalizzante. È impossibile staccarsi completamente: sono un essere umano e vengo toccato dai pazienti e dalle loro storie. Ci si affeziona a loro. Poi anche nelle ore di riposo penso a strategie da adottare per lavorare meglio. Ti restano in testa. Nei periodi più complessi, quando arrivo a casa senza energie a livello mentale e fisico, giocare ai videogiochi mi aiuta a staccare, perché mi butto in un mondo che non ha a che fare con la realtà. Conta molto anche l’apporto della mia ragazza e avere un adeguato supporto emotivo.
La vita è una costante ricerca di felicità, una corsa a zig zag che arriva a un traguardo a volte effimero, altre stabile. Come far alimentare sentimenti di gioia e positività in un contesto complesso come il tuo?
A volte investi tanto tempo ed energie su una persona o un progetto che poi fallisce. Quindi alimentiamo loro e noi con le piccole gioie che ci danno energia positiva. Specialmente i pazienti più giovani devono avere il diritto di avere qualcuno che investa su di loro, anche quando loro stessi non lo fanno.
Quali sono i sogni e i desideri dei pazienti?
Va fatta una divisione: è difficile da comprendere per chi è nato con la malattia o chi si è ammalato troppo presto, mentre per chi ha sviluppato patologie da adulto noto spesso il desiderio di un ritorno a quando le cose andavano bene. Sognano di essere nuovamente nella propria famiglia o a fare il lavoro di un tempo, tornando indietro a un momento di sicurezza e felicità.
Il percorso che porta alla serenità dei pazienti, anche se strada sconnessa con una meta distante, diviene più nitido se al loro fianco ci sono operatori e persone come Daniele. Ogni giorno, passo dopo passo, s’impegnano per dare linfa e colore alle giornate dei malati. Non è solo un lavoro, ma una vocazione. La rinascita comincia così.
Articolo tratto da: Journal Cittadellarte
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