Dal turismo di massa alla deforestazione, ecco come la speculazione minaccia montagne e foreste italiane
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È un momento durissimo per le montagne italiane e le foreste di cui questi maestosi giganti sono ammantati. La proverbiale e diabolica accoppiata fra economia speculativa e politica sta sferrando duri attacchi al nostro patrimonio forestale, minacciando l’ecosistema montano e i delicati equilibri ambientali, ma anche sociali, che esso custodisce.
Ultimo in ordine di tempo, il provvedimento che prevede l’abbattimento di diversi ettari di faggeta sul monte Terminillo, allo scopo di guadagnare superficie utile per ampliare gli impianti sciistici del comprensorio. Ne abbiamo parlato con il professor Bartolomeo Schirone, coordinatore del Corso di Laurea in Scienze della Montagna presso l’Università della Tuscia.
Il Terminillo è sotto attacco: per realizzare il complesso sciistico si prevede il taglio di 17 ettari di faggeto, con esemplari anche ultracentenari. Cosa ne pensa?
La superficie da assoggettare al taglio sembrerebbe essere minore e non dovrebbe toccare la parte più vecchia (vetusta) della foresta, ma la natura del problema non cambia. Si tratta di un progetto che è nato male perché rispecchia logiche di “valorizzazione“ economica ormai superate sia perché assolutamente incompatibili con la sostenibilità ambientale sia perché scarsamente remunerative anche in una visione strettamente speculativa. Tutti gli indicatori climatici concordano nel prevedere, al di là di fenomeni episodici come l’abbondante nevicata di quest’anno, un futuro con temperature invernali sempre più calde e periodi di innevamento sempre più brevi. Perciò, puntare sullo sci alpino per assicurare lo sviluppo del Terminillo sembra per lo meno azzardato. Per meglio dire, insensato.
Ultimamente si stanno levando diverse voci di dissenso nei confronti della gestione turistica delle nostre montagne, giudicata troppo invasiva. Lei è d’accordo con queste accuse?
Le montagne, e più in generale le aree interne, rappresentano la sola “riserva” di territorio che rimane all’Italia dopo il loro progressivo abbandono determinato dalla crescita economica delle città e delle zone industrializzate. Lì vi sono le condizioni utili a conservare la biodiversità ancora intatta e gli ecosisistemi meno compromessi ossia quelli in grado di mitigare – per quanto possibile – il riscaldamento globale in atto. L’assalto a queste aree, camuffato da sviluppo e per certi versi avallato anche dalla Strategia Nazionale per le aree interne, andrebbe evitato in tutti i modi perché altre “riserve” non ne abbiamo. Ovvio, quindi, che anche il turismo debba essere contenuto e indirizzato verso forme di alta responsabilità. Al momento, salve qualche rara e timida eccezione, il modello di sviluppo turistico che si propone non si discosta molto da quello tradizionale.
Pensa che possa esistere una via di mezzo virtuosa per sostenere l’economia montana senza avere un impatto ambientale troppo elevato sui territori?
Ne sono convinto ed è ciò che cerchiamo di insegnare nel Corso di laurea in Scienze della Montagna che dirigo presso la sede reatina dell’Università della Tuscia. Alla base di tutto vi deve essere una attenta e corretta pianificazione del territorio impostata sulla conoscenza approfondita degli ecosistemi e delle risorse naturali di ciascuna area. Ne deriva che, per prima cosa, occorre porre attenzione alle professionalità chiamate a svolgere questa azione. Non possono essere, ad esempio, ingegneri che non hanno alcuna conoscenza del funzionamento degli ecosistemi (ciò vale anche per gli ingegneri ambientali perché questi argomenti richiedono studi di base specifici ed articolati), ma nemmeno agronomi che conoscono benissimo il funzionamento delle piante e dei sistemi produttivi, ma ben poco sanno delle regole che governano la vita dei sistemi naturali “autonomi” cioè che si perpetuano senza l’aiuto dell’uomo. Ovviamente, in un lavoro complesso come la pianificazione territoriale su base ecologica anche queste figure possono svolgere un ruolo determinante, ma sempre ancillare rispetto a chi gli ecosistemi li ha studiati a fondo.
Questi possono apparire giudizi molto duri ma, a prescindere dal fatto che sono rivolti alle categorie e non ai singoli, la situazione del nostro ambiente è tale da non ammettere compromessi. La gestione dell’ambiente naturale è cosa estremamente complicata e non può affrontata in maniera superficiale. Se la pianificazione generale è il primo passo, il secondo è il piano di valutazione quantitativa e qualitativa delle risorse idriche e della loro gestione. Tornando al caso del Terminillo, il piano di sviluppo prevede la realizzazione di bacini idrici per la raccolta dell’acqua necessaria per alimentare gli impianti di innevamento artificiale in caso di mancanza di precipitazioni nevose naturali (cioè quasi sempre). Questa proposta contenuta nel progetto è stata valutata con la dovuta attenzione? Abbiamo delle certezze in tal senso? Alcuni nutrono seri dubbi al riguardo.
Ci può fare qualche esempio in proposito?
Oltre a considerare tutti gli altri aspetti che regolano gli equilibri degli ambienti montani, bisogna sostenere un’economia che sia dimensionata a scala d’uomo. Il che non significa necessariamente ridurre tutto all’ecoturismo (i soliti cammini per escursionisti e simili) o alla gastronomia dei prodotti tipici (le note caciotte e salsicce), che pure sono necessari, ma rendere compatibile anche l’industria, che è il vero motore per lo sviluppo di un Paese. Quale industria? Ovviamente non quella pesante, sia perché consuma quantità spaventose di suolo sia perché l’Italia ha ormai ceduto la maggior parte delle sue industrie di questo tipo, ultima la FIAT (FCA). L’industria sulla quale si deve puntare è quella del futuro – ad altissimo contenuto tecnologico, che non inquina –, è energeticamente autonoma e richiede pochissimi spazi (anche perché si sviluppa in grandissima parte come lavoro al computer) che si possono ricavare dalla ristrutturazione di edifici in disuso, anche vecchi casali. L’importante, in ogni caso, è evitare l’ulteriore consumo di suolo. Anche tutta l’industria dei servizi, che non consuma suolo, può essere spostata in montagna e, a certe condizioni, anche lo spostamento dei servizi sanitari e scolastici. Per non parlare della ricaduta occupazionale che potrebbero avere le attività di manutenzione del territorio.
Ciò che sta avvenendo nel Lazio introduce un altro tema: la nuova norma regionale sulle faggete depresse che intende abbassare la quota da 800 a 300 metri. Che opinione ha in proposito?
È un misero gioco delle tre carte per aggredire faggete altrimenti protette. Per comprendere il senso dell’operazione bisogna premettere che sull’Appennino le faggete si collocano tra 800 e 1200 metri di altitudine e che, per convenzione scientifica, vengono definite depresse tutte le faggete che si trovano significativamente più in basso di tale quota. Nell’agosto del 2017, prima dell’approvazione del TUFF (Testo Unico in materia di Foreste e filiere Forestali), la Regione Lazio per cavalcare l’immagine positiva derivante dal fatto che due faggete vetuste laziali erano state inserite nell’elenco dei siti Unesco patrimonio dell’Umanità, emanò una legge abbastanza avveniristica, impostata sulla gestione conservativa, che tutelava le foreste vetuste perché in questa categoria ricadevano i due siti Unesco di Monte Cimino (Comune di Soriano al Cimino) e Monte Raschio (Comune di Oriolo Romano). Inoltre, dedicava particolare attenzione alle faggete “depresse” indicando nella isoipsa degli 800 metri il limite altimetrico al di sotto del quale le faggete dovevano essere considerate tali. In tal modo la legge intendeva tutelare i boschi intorno a Monte Raschio, dove la faggeta si sviluppa tra 440 e 552 metri.
Tuttavia questa legge prevedeva, ai fini applicativi, che venisse fatto l’elenco (registro ufficiale) delle foreste vetuste regionali. Ad oggi però, nonostante le numerose sollecitazioni, detto elenco non è stato mai compilato. Non solo! Per “completare l’opera” e scongiurare il rischio che le faggete diventassero “protette” in via definitiva, a febbraio del 2020, nel pieno della prima ondata covid, quando la gente era distratta da ben più gravi problemi, la Regione Lazio ha abbassato il limite altimetrico superiore delle faggete depresse da 800 e 300 (trecento!) metri vanificando così l’efficacia delle precedente norma. Infatti nel Lazio (e in quasi tutto il resto dell’Italia peninsulare) non risulta che ci siano faggete sotto i 300 metri di quota. Quindi, via libera al taglio.
Allargando il campo, quali sono le criticità della gestione del patrimonio forestale italiano a suo avviso?
Le criticità sono tante e sono aumentate dopo l’approvazione del nuovo Testo Unico in materia di Foreste e Filiere Forestali (D.Lvo 03/04/2018 n 34) avvenuta nel 2018 a Camere sciolte. Questa legge riporta indietro la selvicoltura italiana di almeno cinquant’anni perché, in barba a tutta la politica ambientale seguita negli ultimi decenni in Italia e a livello internazionale, non considera in nessun modo – eccetto una frasetta nell’incipit del provvedimento – gli aspetti e i valori naturalistici e ambientali del bosco e impernia tutta la sua filosofia sulla cosiddetta gestione attiva della foresta ossia sulla sua funzione produttiva. In altre parole, tagli che, per la tipologia descritta dalla stessa legge, sono indirizzati maggiormente verso la produzione di legna a scopo energetico (biomasse).
Tutto ciò solo per assecondare l’interesse economico di alcuni settori industriali. Ed è dato perfino di assistere all’indecoroso spettacolo di alcuni esponenti del mondo accademico che, per sostenere tale legge, non esitano a spacciare l’energia da biomasse come energia rinnovabile, tacendo che la combustione da biomasse è altamente dannosa per la salute umana e arrivando ad affermare, contro ogni evidenza scientifica e lo stesso buon senso, che senza l’aiuto dell’uomo il bosco muore. Tuttavia, la conseguenza peggiore è che la legge, contraddicendo il suo stesso titolo di Testo Unico, non unifica nulla e lascia alle singole Regioni totale libertà decisionale in campo forestale. Ne è già derivata una situazione di totale anarchia che, favorita anche dalla soppressione del Corpo Forestale dello Stato, oggi rende pressoché impossibile controllare le attività di taglio nelle nostre foreste. I tagli stanno aumentando dovunque, e cosa più grave, avvengono senza alcun criterio selvicolturale.
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