Mafric, la realtà di moda etica e sostenibile che porta l’Africa a Milano
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Milano - Mafric è un nome che racchiude significati grandi quanto gli spazi da cui nasce questo progetto di moda solidale e sostenibile. Prima di iniziare a scrivere questo articolo ho cercato su Google il posto da cui la realtà di cui vi parlerò ha avuto inizio: Livingstone, in Zambia. Dalle immagini che ho visto mi è parso un luogo di grandi spazi e di silenzi, di calma, di tempi lunghi e di respiri ampi. Qui il protagonista della mia intervista durante un periodo di servizio civile ha avuto l’idea di dar vita a quello che diventerà Mafric (da Modafrica Craft): realizzare qualcosa che porti l’Africa oltre i suoi confini, che sia esteticamente bello, con un valore sociale replicabile e la cui produzione sia sostenibile. Lui si chiama Mario Giovanni Lucchesi, ha meno di 30 anni, ma le idee molto chiare.
«Dopo l’anno trascorso in Zambia – racconta – ho pensato di portare in Italia un po’ del mio vissuto unendo il mio percorso accademico (una laurea in relazioni internazionali) e la bellezza dei tessuti africani per realizzare qualcosa che potesse portare nel mondo un messaggio di interculturalità con un risvolto sociale: una volta in Italia sono entrato in contatto con diverte sartorie sociali in cui donne in situazioni di vulnerabilità tendenzialmente straniere imparano a diventare sarte.
Nel tempo ho costruito una rete di diverse sartorie sociali (sei nel milanese e tra queste quella di un carcere) e al momento sono in contatto con delle sartorie in Veneto, Rimini, Genova perché questa rete possa crescere».
L’obiettivo di Mario Giovanni è ora quello di creare una rete di sartorie sociali a livello nazionale «perché le sartorie sociali possano avere le risorse economiche per andare avanti, indipendentemente dalle associazioni in cui sono inserite e dai contributi regionali o dai Bandi a cui partecipano».
Chiedo a Giovanni in che modo sono realizzati i prodotti. «Scelgo personalmente tessuti, materiali e con quale sartoria lavorare. Mi assicuro che in ogni sartoria ci sia un’insegnante che dia basi solide ai prodotti e che l’output non abbia difetti: avendoci lavorato so che la produzione tessile africana tende ad essere molto approssimativa nei dettagli, orli e cuciture. Voglio che sia la qualità del prodotto ad attrarre gli acquirenti, il valore sociale invece deve essere un di più ma non il primo criterio di scelta. La vendita al momento avviene attraverso le biobotteghe equosolidali. Nell’arco del prossimo mese l’idea è di aprirci anche al mercato e-commerce».
Perché lavorare con donne in situazione di vulnerabilità? «Sono sempre stato circondato da donne in gamba: mia madre e mia nonna che mi hanno cresciuto e si sono fatte in quattro per mandare avanti la famiglia».
È evidente, dal modo in cui parla Giovanni, che la forza dell’universo femminile da cui è tutt’ora circondato influenzi le sue scelte e sia un grande elemento di fascinazione. Lo percepisco dai suoi racconti: «Le donne in Africa portano avanti la loro famiglia: per le donne africane la famiglia sono i figli, più che i mariti. Qui le donne hanno una grande forza di andare avanti nonostante i traumi con cui spesso devono confrontarsi (tra questi la morte). Ci sono le donne dell’Uganda, ex donne di uomini soldati oppure le vedove che sono considerate impure nel contesto sociale di appartenenza proprio per le loro scelte sentimentali: essere state con uomini soldato oppure aver perso il marito.
A tutte queste donne Mafric offre l’opportunità di avere una fonte di sostentamento, di imparare un mestiere, di guadagnare dei soldi che le aiuteranno a crescere le loro famiglie. L’associazione We care con cui Mafric collabora vende l’artigianato prodotto dalle ex donne di uomini soldato o dalle vedove dell’Uganda».
Concludo la mia intervista con la convinzione che Giovanni sia veramente riuscito attraverso Mafric a portare nel mondo gli stessi ampi spazi di Livingstone che ho scorto su Google, dando a tante persone – molte di queste donne- una seconda possibilità, un significato che trascende le differenze culturali e che davvero sia ampio anche il respiro che questa realtà porta con sé. Ampio esattamente come tutti i suoi spazi.
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