Jean e Sabin, i maestri che camminano quattro ore al giorno per fare lezione ai loro alunni
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Spesso si racconta che l’Africa è l’Africa perché svogliata e pigra. Le persone che la vivono non sono proattive e lasciano scorrere le cose senza la capacità o l’intenzione di cambiarle. La povertà è solo una delle tante conseguenze di questo approccio. C’è poco da fare.
Un barlume di preconcetto in questo senso l’ho coltivato anch’io nelle prime settimane. Le infinite attese, i negoziati che durano due ore perché nella prima ora e mezza si parla solo di convenevoli, l’apparente lentezza nel seguire l’onda della giornata. La visione efficientista occidentale sembra trovare un muro di gomma fatto di calma e tempi vuoti.
Poi, al quarto mese di terra rossa, si comincia a toccare con mano l’intreccio di senso che lega la vita delle persone. Emerge dall’apparenza il mare di difficoltà e instancabile impegno che dipinge le esperienze di chi abita questi luoghi. Agli occhi si fa chiara la trama di straordinarietà che lega il brulichio di storie e ribalta quella che fino a ieri era una certezza.
Di esempi ne potrei tirare fuori a decine, scelgo questo. Jean e Sabin sono due professori della scuola primaria gestita da AMKA. Due ragazzi, poco più che trentenni, cresciuti nei villaggi della zona, che con volontà e fortuna sono riusciti nel miracolo di terminare gli studi fino a divenire insegnanti.
La scorsa settimana si è tenuta a Kanyaka la riunione di preparazione per il nuovo anno scolastico. Con il lockdown e la chiusura anticipata delle aule, molti bambini sono stati richiamati dai genitori nei campi. Convincerli dell’importanza di far tornare i loro bambini a scuola sarà l’obiettivo dei prossimi giorni.
Durante la riunione abbiamo scambiato impressioni e suggerimenti. Alla fine, ci siamo salutati raccontando ognuno qualcosa della propria vita. Qui ho scoperto che Jean e Sabin vengono da Mose e ogni giorno ci mettono due ore per arrivare a Kanyaka. Due ore ad andare e due ore a tornare, sotto un sole che si appiccica addosso e le sterpaglie della brousse piene d’insetti e serpenti. Per 150 dollari al mese. 5 dollari al giorno.
Lo fanno perché anche loro sono stati bambini e hanno vissuto in famiglie dove la necessità è l’unica educazione, lo fanno perché credono nell’importanza di costruire strade nuove, lo fanno perché sono sicuri del valore di un orizzonte che ogni giorno si sposta un po’ più in là.
E poi lo fanno perché quella strada che li separa dalla scuola la dividono con i piccoli alunni provenienti dai villaggi della zona. Insieme, ogni giorno, marciano verso un futuro che sembra lontano anni luce dalla realtà fatta di terra e miseria che si lasciano alle spalle. Il loro insegnamento comincia ben prima dell’aula: comincia da casa, dalle scarpe rotte rosse di sabbia, dal sorriso calmo una volta a scuola.
Storie come quella di Jean e Sabin hanno cambiato la mia percezione sulla intraprendenza di chi vive questo spicchio di mondo. Qui, dove le cose più piccole diventano enormi, esiste un’ordinarietà che si allunga fino a prendere le forme dell’impossibile. Nelle braccia larghe di queste piccole grandi azioni cadono i semi di un domani ancora tutto da costruire.
Da oggi, quando sentirò dire che gli africani sono pigri, racconterò la storia di Jean e Sabin e della loro marcia quotidiana per spargere semi di un futuro diverso. Non si sa mai che storie così possano servire anche a noi, nel mondo di su, per riempire di senso le piccole azioni che la semplicità ha reso scontate.
Piccole e semplici come andare a scuola.
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