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Genova - “Vorrei tornare ad abbracciare i miei amici”. “Vorrei che il Covid-19 sparisse per sempre”. “Vorrei tornare alla normalità”. Questi sono alcuni dei desideri che i bambini genovesi hanno espresso per questo strano Natale in zona rossa. Sono messaggi che esprimono tutta la fatica di questa dimensione di distanziamento sociale che ci sta portando a vivere in bolle isolate, costringendo i più piccoli a crescere facendo attenzione a non avvicinarsi “troppo” agli altri, agli amici, ai familiari, ai compagni di scuola.
Questo bisogno di contatto, detto a bassa voce, ma che vorrebbe essere gridato a squarciagola, racconta quanto manca a noi e ai bambini poter esprimere fisicamente l’affetto e il calore all’altro. E proprio come accade all’interno di un organismo biologico, che è tanto più ricco quanto più ogni sua singola parte e componente riesce a perfezionare le proprie funzioni vitali, diverse e tra loro complementari, ognuno di noi ha bisogno degli altri per arricchire il proprio cammino.
Ho deciso di parlarne con Simone Morini, lo scrittore pendolare che abbiamo conosciuto qualche tempo fa. Nella sua ultima pubblicazione, Gaia e il popolo della Luna (illustrazioni di Irene Tamagnone, ed. La Leggerìa), ha voluto affrontare, attraverso il linguaggio di una fiaba illustrata, il tema del contatto con l’Altro dalla prospettiva di una bambina che, sulla Luna, scopre l’importanza delle ombre, per poter vedere la luce.
Simone, di cosa parla il tuo libro e in che modo affronta la diversità?
È la storia di una bambina che va sulla luna alla ricerca di un ciondolo che le è stato rubato: lì trova una realtà e degli abitanti simili alla terra e ai terrestri, dove ogni cosa brilla di una luce argentata. Gaia è la “diversa”, ma viene accolta nonostante qualche diffidenza iniziale. A poco a poco emerge il vero contrasto su cui si incentra la storia, quello tra la luce dei lunari e l’ombra di misteriosi invasori chiamati appunto Ombre. Tocca proprio a Gaia fornire, con la semplicità tipica dei bambini, una chiave di lettura a questo conflitto, giungendo alla conclusione che “niente ha senso senza il suo contrario”.
Nella postfazione scritta dalla pedagogista Vanessa Niri si legge: “Il percorso di Gaia ci ricorda che l’infanzia non può che essere il periodo della scoperta, della fascinazione, della magia, dell’incontro con l’altro e, quindi, della crescita e del cambiamento. Se è altro, semplicemente non è”. Quanto pensi sia attuale, in questa fase storica, riscoprire la bellezza del contatto?
La riscoperta del contatto sarà un presupposto fondamentale per superare completamente l’emergenza che stiamo vivendo. Mi riferisco non solo al contatto fisico, ma anche a quello mentale/spirituale. Il Covid ha esasperato una tendenza, a mio avviso, già presente nella società: la chiusura all’interno delle proprie convinzioni e dei propri pregiudizi. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione a cui abbiamo assistito negli ultimi anni ha dato l’illusione di eliminare i confini.
In realtà, credo che il dibattito costruttivo sia davvero poco praticato, troppo spesso scalzato da invettive e aggressività verso chi non è o non la pensa come noi, esattamente verso quella diversità che la protagonista del racconto tenta di comprendere.
Oggi temiamo non più il “diverso” quanto piuttosto i nostri simili, a cui non possiamo avvicinarci. Quando hai scritto questa fiaba, a che diversità ti riferivi?
A ogni tipo di diversità: genere, orientamento sessuale, credo, etnia. Il fatto stesso di parlare di “tipo di diversità“ è una barriera mentale, perché significa che anche parlando di diversità non si resiste alla tentazione di diversificare. Nel racconto, la diversità è volutamente espressa in termini poco specifici, limitandosi alla contrapposizione luce-ombra proprio per far sì che la storia possa portare un messaggio universale, indirizzato a una fascia di età cruciale per lo sviluppo del concetto di tolleranza.
E, parlando con Simone, mi torna alla mente un pensiero di Terzani, letto qualche tempo fa: “Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt’uno, in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo”. Che sia proprio questo uno dei buoni propositi del 2021?
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