I ripopolanti della Val Taverone danno vita a una nuova comunità nella natura
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Siamo in Lunigiana, regione storica conosciuta come “la terra dei luni e dell’albero del pane”, e più precisamente nell’Alta Val Taverone, a cavallo fra i borghi di Sommoripola, Ripola, Tavernelle e Crespiano. È in questi luoghi montuosi, immersi nella natura e ricolmi di saperi antichi ma sempre più spopolati, che nel corso dell’ultimo anno si sono trasferite una dozzina di persone, giunte in piccoli gruppi o coppie.
C’è chi è arrivato con l’intenzione di apprendere i mestieri tradizionali, farne esperienza e dare loro continuità, chi per divincolarsi dalla stretta morsa della città e dare vita a nuove forme di socialità, chi per allontanarsi dal rimbombo degli stimoli artificiali e riscoprire i ritmi, talvolta più lenti, talvolta più veloci, della natura, chi semplicemente per avere una casa, un luogo in cui fermarsi dopo tanto viaggiare e chi ancora per dare modo ai propri figli di vivere un’infanzia all’insegna dello stupore per le piccole cose e di crescere sotto lo sguardo di un intero paese.
Giunti qui con intenzioni variegate e in momenti diversi – c’è, per esempio, chi vive qui da anni, sull’onda di un’interessante esperienza comunitaria che portava il nome di Paese Liberato, chi si è trasferito l’autunno scorso, quando ancora i giovani presenti nel territorio si contavano sulle dita di una mano, e chi è arrivato alla fine del primo lockdown, con l’arrivo dell’estate – i ripopolanti hanno dunque iniziato a operare nella valle, ognuno secondo le proprie inclinazioni e i propri interessi.
Alcuni hanno dedicato il proprio tempo alla pastorizia, hanno risistemato una vigna e messo su o curato degli orti, piantando per esempio le tipiche cipolle di Treschietto o altre sementi e varietà locali, qualcuno si è dedicato al proprio lavoro – scrivendo, disegnando o intrecciando macramé – godendo della quiete del posto, qualcuno ha allevato galline e anatroccoli, altri ancora hanno messo in piedi un’associazione culturale, La Colomb’era, ospitando corsi e volontari alla ricerca di stili di vita e modi diversi di stare assieme.
«Abbiamo bisogno di un luogo: ci vuole una mano, una casa, un sorriso, qualcosa che ci faccia da perimetro. L’animale senza luogo si ammala, ama senza amare, soffre senza soffrire. Amare è costruire un luogo, cioè un pezzo di mondo con un dio dentro», diceva la poesia di Franco Arminio appesa all’ingresso dell’edificio de La Colomb’era, a mò di manifesto.
Dopo tutte queste piccole e grandi azioni, compiute perlopiù individualmente o in piccoli gruppi, l’albero del pane, ovvero il castagno, storicamente così prezioso per la sussistenza di questi luoghi, già verso la fine dell’estate si è presentato come un preziosissimo collante fra i vari ripopolanti della valle e con gli stessi locali. Dopo una prima proposta a collaborare per la produzione della farina di castagne da parte dei ragazzi di Sommoripola, infatti, nel giro di poco tempo si sono susseguite varie riunioni ed è stato messo in piedi un sistema di ripartizione del lavoro e dei prodotti finali all’insegna della fiducia.
«Non era affatto scontato che dieci persone, senza conoscersi troppo, riuscissero a fidarsi l’una dell’altra, anticipando spese, lavorando assieme e suddividendo equamente i frutti del lavoro collettivo, ma pare che ci siamo riusciti», ha sottolineato Agnese, una delle ripopolanti della Val Taverone.
Il lavoro collettivo è partito a settembre, con la pulizia dei castagneti che i locali stessi ci hanno messo a disposizione. Armati di decespugliatori, falcetti e rastrelli, a volte in gruppetti e a volte tutti assieme, abbiamo tagliato rovi, felci, la resistente erica, e preparato i boschi alla raccolta delle castagne. Le madri e i padri del gruppo hanno tratto grande gioia dal portare con sé i figli nei boschi e dal portarli a giocare all’aperto insieme, mentre le relazioni fra nuclei e gruppi diversi si sono via via intrecciate e colorite di nuove esperienze condivise e tutti hanno potuto rafforzare il proprio legame con il territorio e la natura circostante. «È stato bellissimo lavorare nel bosco, in città non avevo mai pensato che potesse essere un’opzione», racconta Agnese.
A ottobre le castagne hanno iniziato a cadere e dopo i primi raccolti è giunto il momento di accendere il gradile (essiccatoio) messoci a disposizione dalla famiglia del pastore della zona. Le castagne, per seccare bene, hanno bisogno di fuoco e fumo continuo per un mese intero, né troppo debole né troppo forte – rischio l’esplosione di un incendio. In questa fase, così lunga e così delicata, l’esperienza e il supporto concreto dei locali è stato prezioso quanto lo sforzo e la responsabilità condivisa fra i vari gruppi e nuclei della valle.
A metà novembre, infine, il gradile è stato spento e, mentre le castagne erano ancora calde, le abbiamo battute tutti assieme. Sono seguiti i giorni della selezione, addolciti dalle frittelle di mele, e poi, con l’arrivo della farina, di castagne, preparate per noi dalla Luciana, o dai biscotti e cioccolatini che la Tilde è solita dare ai bambini del gruppo. «È come un abbraccio della valle!», ha riportato Rachele. «Da quando abbiamo iniziato a lavorare assieme mi sento più radicata nel territorio, sento di avere più reti di relazioni», ha raccontato Federica. «Mi piace il mutuo aiuto nato fra le mamme, sta nascendo un gruppo d’acquisto e vorrei che continuassimo a scambiarci saperi, semi, prodotti e fare altre cose assieme».
Chi avesse il desiderio di contattarci per ricevere la nostra farina di castagne o avesse la possibilità di sostenere questo nostro progetto, perché la collaborazione nata in questi mesi possa avere continuità, la nostra azione sul territorio possa radicarsi e perché da questo primo passo possano nascere nuove risposte a questi tempi incerti può scriverci a terradeiluni@gmail.com.
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