23 Nov 2020

E se smettessimo di fingere?

Scritto da: Libero Repubblico

Qual è il nostro atteggiamento nei confronti di una questione attuale e urgente come la crisi climatica? Stiamo impiegando le nostre energie nel modo opportuno? Questi i temi su cui Libero Repubblico riflette in questo articolo, a partire da un'intervista e da una bella domanda: e se smettessimo di fingere?

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Scrivo per chi ammette che trent’anni di lotta contro il riscaldamento globale non sono serviti a niente e che adesso è troppo tardi per evitare un aumento destabilizzante della temperatura globale. Credo che molti ormai lo riconoscano e, da saggista, ho il compito di dar voce a quello che le persone pensano in privato e temono di dire in pubblico. Il mio messaggio a queste persone è: non siete sole.

Volevo anche fare una riflessione sul senso che ha lo sperare in un momento in cui il mondo è destinato a diventare meno vivibile. Sperare di poter evitare la catastrofe climatica è ammirevole, ma la scienza ci mostra che questo genere di speranza è ormai irrealistica.

(Intervista di Lorenzo Tecleme a Jonathan Franzen sul suo ultimo libro E se smettessimo di fingere?, Einaudi, su “la Repubblica”, venerdì 9 ottobre 2020)

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Questa è una bella domanda che coglie la rassegnazione e la disperazione che si diffondono in questi anni sulla questione climatica e ambientale. E se gliela dessimo su? (come si direbbe a Bologna). Leggere questa intervista mi ha ricordato un episodio di alcuni anni fa.

Ero seduto al tavolo di una pizzeria romana insieme ad altri artisti e giuristi che partecipavano alle folli e bellissime utopie del Teatro Valle Occupato, e si dibatteva sui beni comuni, sulla necessità di affermarne la necessità da un punto di vista culturale e la legittimità da un punto di vista giuridico.
Tutti quanti eravamo presi da quella strana foga che coglie chi si sente di lavorare e lottare per qualcosa di giusto, per qualcosa che eccede il proprio interesse personale, per qualcosa che Aristotele avrebbe potuto spiegare ai suoi concittadini come, appunto, bene comune, cioè il fine più importante da perseguire per una società politica e anche il suo principio costitutivo.

A interrompere la vivace discussione a un certo punto intervenne un drammaturgo di cui ho grande stima, proferendo anch’egli una bella domanda: “Non credete che la vostra azione stia in fondo contribuendo alla sopravvivenza del sistema che sostenete di volere abbattere? Non è forse meglio concentrarsi sull’accelerare lo schianto?”.

Già. Ho sempre pensato che, in fondo, Fausto avesse ragione da vendere. O comunque la provocarietà della domanda mi colpiva perché probabilmente me l’ero già posta anch’io. La domanda che pone Franzen è una generalizzazione del concetto.

Forse le energie che impieghiamo nel comportarci in modo etico, nel differenziare l’immondizia per esempio, oppure nell’andare in bicicletta invece che in macchina, o ancora nel donare dei soldi a qualche organizzazione umanitaria, potremmo, o dovremmo, impiegarle nel prepararci ai numerosi shock climatici, ambientali, e di conseguenza economici e sociali, che inevitabilmente ci attendono nei prossimi anni.

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Sono ormai molte le voci del mondo scientifico che riconoscono il fatto che raggiungeremo presto il punto di non ritorno rispetto all’aumento della temperatura globale. Passato il 2% in più rispetto al periodo pre-industriale inizierà un effetto domino incontrollabile e a quel punto il cambiamento sarà ancora più rapido e drastico. E il conseguente processo di cambiamento che investirà il modello capitalistico di mercato per forza di cose non potrà essere indolore. Anch’esso, come le altre grandi trasformazioni che l’hanno preceduto, porterà con sé morti e feriti. E in realtà lo sta già facendo.

Se è vero che il Covid 19 ha ucciso più di un milione di persone, l’Oms riconosce che sono 7 milioni le persone che ogni anno muoiono per inquinamento. Solo in Italia sono circa 91mila l’anno. I numeri poi salgono se si includono altre cause ambientali, come uragani, inondazioni e simili.

Un segnale evidente della ritrosia ad accettare i dati scientifici che da anni mostrano la gravità della nostra condizione ambientale è proprio nel titolo dell’articolo in questione: Franzen “Dalle foreste agli animali dobbiamo batterci per salvare la natura”. È evidente che il titolo e l’opinione dell’intervistato, che è considerato uno dei maggiori scrittori viventi e ha intitolato il suo libro E se smettessimo di fingere?, sono due cose quasi opposte, comunque molto diverse. Il titolo è capzioso e non sintetizza per nulla il contenuto dell’intervista.

Da dove ci viene questo rifiuto endemico? Perché continuiamo a pensare che l’unica nostra salvezza e quella della natura siano legate al mantenimento dello stesso sistema che ci ha condotto al disastro? Perché inseguiamo con tanta testardaggine questa illusione? E se smettessimo finalmente di fingere?

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