La sfida di Marco: si licenzia e fa il fotografo freelance… anche per suo figlio
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Marco aveva un lavoro dipendente, normale. Non gli dispiaceva, anche se gli ha fatto notare alcuni aspetti della vita – della sua vita, della vita di tutti noi – che sono impossibili da conciliare con esigenze più “umane” rispetto a quella di timbrare il cartellino e portare a casa uno stipendio per sostenere uno stile di vita insostenibile, non solo dal punto di vista economico. Esigenze come quella di stare vicino in ogni momento della giornata a un figlio con bisogni particolari.
Per questo ha deciso di fare il grande salto, lasciando il suo lavoro e cercando di trasformare in lavoro la sua passione, la fotografia di strada. Gli abbiamo chiesto di condividere con noi alcune riflessioni che, prendendo spunto dalla storia sua e di suo figlio Frankie, contribuiscono a rimettere a fuoco l’obiettivo, oggi puntato su esigenze e bisogni sempre più superflui e superficiali.
Rispetto alla tua esperienza – ma anche facendo una riflessione di carattere generale – ritieni che il lavoro così com’è oggi sia troppo opprimente rispetto alle necessità degli esseri umani?
Rispetto alla mia esperienza non ho sentito oppressione perché svolgevo un lavoro per cui ero portato e mi piaceva. In generale, il problema – a mio modesto avviso e condividendo il pensiero di Pepe Mujica in merito – è che siamo costretti a “ucciderci di lavoro” per avere la possibilità di mantenere quanto di materiale abbiamo accumulato. E la causa di ciò a mio avviso è la continua competizione con il prossimo alla quale penso siamo sia assuefatti. Accumuliamo oggetti che costa tanto mantenere e spendiamo molto per il superfluo, per ciò di cui si può fare a meno.
Riporto un episodio: nell’edificio dove lavoravo mancò l’acqua per più giorni a causa di lavori; usavamo un serbatoio, sia prima che dopo i lavori, e durante questi ultimi siamo stati tutti molto attenti a non consumarla per non chiamare di continuo per il rifornimento. A conti fatti, nel periodo dei lavori, ci è bastato un terzo di acqua rispetto al solito, stando solo attenti allo spreco e senza farci mancare niente. Viviamo nel periodo dell’esagerazione, in tutti gli ambiti.
Non ti spaventa il salto da dipendente a freelance, a maggior ragione passando a una disciplina “artistica” in un paese dove l’arte è considerata un hobby e non una professione?
Che possa non andare per il verso giusto l’ho messo in conto; ma considerando le necessità in famiglia, con Frankie che ha bisogno di assistenza continua, avendo ben presente che alla mia età è inutile sognare di incontrare chi ti assuma – soprattutto con la necessità della flessibilità di orario lavorativo –, che Frankie tra due anni terminerà la scuola e non è neanche pensabile che resti a casa da solo a “far niente”… ecco che un’attività freelance in cui Frankie potrà accompagnarmi, se non anche partecipare fattivamente, viene da me immaginata come una buona soluzione da tentare. Funzionerà? Non lo so. Anche in considerazione del tipo di fotografia che realizzo, sono convinto che se non incontrerò chi “creda” insieme a me nell’idea, e che “possa fare qualcosa” nel comune interesse, la disciplina intrapresa resterà un hobby e forse anche una perdita di tempo e denaro. Ma, citando B.Russel, “gli ingenui non sapevano che l’impresa era impossibile, dunque la fecero”.
In che modo la fotografia si può sposare con la disabilità?
Magari avessi una ricetta! Ogni disabile è unico, come unico è ognuno di noi. Io avrei individuato una possibilità per Frankie, ma conoscendolo…
A tuo avviso qual è il modo migliore di parlare di disabilità?
Ciò che ho notato, vivendola dal di dentro, è che servirebbe che il disabile non venisse considerato come una persona impegnativa; al contrario, dovrebbe essere integrato nella società, nell’attività lavorativa e nelle amicizie. La sua considerazione non deve essere una cosa straordinaria, ma l’ordinario nel quotidiano. È questione di abitudine e l’attuale “abitudine”, in merito, non la vedo come buona cosa. Ritengo che rispetto al tema della disabilità non basti essere informati, ma bisogna agire: compassione e pietà non servono. Pensando a esempi noti come quelli di Alex Zanardi, Bebe Vio e chissà quanti altri non noti, dovrebbe prevalere il pensiero che “comunque si può”, anche per gli altri e in tanti modi diversi. Serve aiuto, certo, ma se ne può uscire.
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