I cambiamenti climatici sono già nel Tirreno
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Siamo tornati nelle acque dell’Isola d’Elba con la barca Bamboo della Fondazione Exodus di don Mazzi per la spedizione di ricerca “Difendiamo il Mare”: proprio qui, nel novembre scorso, avevamo posizionato, insieme all’Università di Genova, una stazione pilota per misurare le variazioni delle temperature del mare a diverse profondità. In poche parole, termometri per misurare la febbre del mare. Oggi pubblichiamo i primi risultati di questo progetto, che abbiamo chiamato “Mare Caldo” e la foto che scattiamo è preoccupante: sia dai termometri installati lo scorso inverno in mare a varie profondità, sia dalle osservazioni preliminari fatte durante i monitoraggi sugli ecosistemi marini a fine giugno, emergono chiaramente i segnali degli impatti dei cambiamenti climatici sui nostri mari.
I primi dati registrati dai nostri termometri posizionati fino a 40 metri di profondità indicano, oltre a un aumento repentino delle temperature a inizio giugno che attorno ai 35 metri di profondità sono arrivate fino a 20°C, anche un aumento delle temperature invernali, con una temperatura media minima tra dicembre e marzo di 15°C, di ben un grado più alta delle medie registrate in superficie fino al 2006.
Questo riscaldamento delle acque favorisce lo spostamento verso nord di tutte le specie termofile, cioè quegli organismi che normalmente vivono e si riproducono a temperature più elevate, fatto che è confermato da quanto osservato durante le nostre immersioni, abbiamo potuto rilevare la presenza di pesci normalmente abbondanti in aree più calde del Mediterraneo, come la donzella pavonina (Thalassoma pavo) o alcune specie di stelle marine (Hacelia attenuata) o specie considerate “aliene” come l’alga verde Caulerpa cylindracea, originaria delle coste occidentali dell’Australia.
Con le ricercatrici del DiSTAV dell’Università di Genova ci siamo immersi in vari punti intorno all’Isola d’Elba e all’Isola di Pianosa per monitorare gli impatti dell’aumento delle temperature del mare sugli organismi marini. Quello che abbiamo osservato è preoccupante, specie simbolo dei nostri fondali come la gorgonia gialla (Eunicella cavolini) e la gorgonia bianca (Eunicella singularis) presentano evidenti fenomeni di necrosi, con morie che in alcune aree arrivano fino al 50% delle colonie. Nel caso delle gorgonie rosse (Paramuricea clavata) il 10% circa di quelle osservate è risultata impattata, e la maggior parte delle colonie sono state trovate ricoperte da mucillagine. È proprio questo che preoccupa. Nei siti di immersione monitorati abbiamo registrato una copertura quasi totale dei fondali tra i 10 e i 30 metri da parte della mucillagine, fenomeno in parte correlato proprio all’aumento delle temperature e che provoca la morte degli organismi marini per soffocamento aggravando la situazione.
Durante le immersioni abbiamo visto anche altri chiari impatti delle anomalie termiche pregresse, come lo sbiancamento o la morte di alcuni coralli (la madrepora a cuscino – Cladocora caespitosa, e alcune alghe corallineacee), nonché la morte di numerosi individui di nacchere di mare o Pinna nobilis, (specie ultimamente decimata proprio da malattie la cui diffusione è favorita dall’aumento delle temperature). Ma se alcuni di questi segnali si osservano anche a Pianosa, in generale la situazione su quest’Isola che è un’ area totalmente protetta è ben diversa: qui l’assenza di invasioni di campo da parte dell’uomo ha favorito il mantenimento di vere e proprie foreste algali, habitat ormai rari in quasi tutto il Mediterraneo e il proliferare della biodiversità – abbiamo incontrato tantissime specie di pesci, e si ha molto meno traccia della mucillagine, chiaro segnale che, laddove il mare è totalmente protetto, le specie hanno una maggiore resilienza a un cambiamento che è già in atto.
Che fare per difendere il mare da questo destino “scottante”? Inutile girarci intorno: da un lato servono politiche urgenti per tagliare le emissioni di gas serra e fermare l’aumento delle temperature e dall’altro dobbiamo tutelare le aree più sensibili. I cambiamenti climatici sono solo l’ultimo tassello, che aggrava la crisi di un ecosistema già al collasso per via dell’inquinamento da plastica e della pesca distruttiva. Se l’Italia è seria rispetto all’impegno di tutelare un 30% dei propri mari entro il 2030, dovrà mettere in atto meccanismi precisi per fermare da un lato le attività più distruttive e inquinanti e dall’altro rafforzare la rete già esistente di aree protette.
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