21 Lug 2020

Mangia, Vivi, Viaggia: Gianluca Gotto e le sue coordinate per essere felici

Scritto da: Cristina Diana Bargu

Il giovane piemontese Gianluca Giotto a vent'anni ha deciso di lasciare la sua città, Torino, per iniziare a viaggiare, seguendo con la compagna le loro coordinate della felicità. Dopo averlo conosciuto attraverso il suo blog “Mangia, Vivi, Viaggia”, abbiamo deciso di intervistarlo per farci raccontare la sua esperienza.

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Torino - Gianluca Gotto è un giovane nomade digitale di origini piemontesi: scrive articoli e libri mentre gira il mondo. Dal 2016, assieme alla compagna Claudia, condivide le proprie esperienze e riflessioni sul suo blog “Mangia Vivi Viaggia”, nella speranza di diffondere speranza e positività fra coloro che, come lui prima di partire, si sentono confusi, soli, forse sbagliati e avvertono il bisogno di alternative rispetto a quell’unica “normalità” a cui siamo stati abituati. Nel 2018 ha raccontato la sua storia e il suo viaggio, tanto esteriore quanto interiore, nel libro “Le coordinate della felicità”, mentre nel 2019 ha pubblicato con Mondadori “Come una notte a Bali”. Curiosi di saperne di più sulla sua vita e sulle sue scelte, lo abbiamo virtualmente raggiunto sull’isola thailandese in cui si trova da mesi per intervistarlo. Ecco che cosa ci ha risposto.

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Gianluca Gotto, blogger, scrittore e viaggiatore

Quali erano i valori della cultura in cui eri immerso? Cosa ti appassionava e cosa rispondevi da bambino agli adulti quando ti chiedevano che cosa volessi fare da grande?

Sono nato nella città simbolo dell’industria dell’automobile e fin da giovane mi sono sempre sentito fuori posto in questo contesto incentrato sulla produttività. Viaggiare mi ha salvato dall’oblio di una vita grigia, improntata esclusivamente al lavoro e alle ambizioni professionali. Un’esistenza rinchiusa dentro rigidi schemi di normalità prefissati che a lungo andare avrebbero spento la mia essenza più profonda. A proposito della domanda “cosa vuoi fare da grande?”, io non ho mai avuto una risposta, ho sempre pensato che il bello della vita fosse sperimentare tanti lavori, stili di vita e culture diverse. Questo era già sufficiente a farmi sentire “sbagliato”, poi, come detto, fortunatamente ho iniziato a viaggiare e così ho capito che il mondo è grande e pieno di alternative e che forse, molto semplicemente, il mio posto non era quello.

Mi è bastato passare un anno in Australia per aprire occhi e cuore e rendermi conto che non volevo vivere in una città piena di rumore, musi lunghi, smog e maltempo ma preferivo poter stare in infradito tutto l’anno, vivere lentamente e a stretto contatto con la Natura. A Vancouver, invece, ho capito che desideravo un luogo pieno di multiculturalità e rispetto per chi sogna in grande e riesce ancora a vedere la magia che c’è oltre la routine quotidiana. In Asia, dove ho deciso di fermarmi, ho trovato i due fattori già elencati (stile di vita e magia) ma con l’aggiunta di una cultura che reputo estremamente affascinante. Se non avessi deciso di partire ed esplorare il mondo, mi sarei perso tutto questo. Mi sarei perso la mia felicità.

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In che modo andare ricerca delle coordinate della tua felicità è stato un modo per prendere in mano la tua vita, assumerne il controllo?

Fino a vent’anni ho sempre vissuto secondo non-scelte. Non avevo scelto di vivere a Torino, non avevo scelto di frequentare certe persone, non avevo scelto di iscrivermi all’Università, non avevo scelto di mangiare e vivere in un certo modo: era quasi come se fosse capitato. Oggi, quando ripenso al me stesso di dieci anni fa, mi considero come le vacche indù citate in Fight Club: ferme e impassibili, calme ma solo perché avvolte nell’apatia. Se piove, stanno ferme a farsi bagnare; se c’è il sole, stanno ferme a farsi scottare. Io ero così, mi facevo trascinare dalle correnti della vita. Anni più tardi, nella comune di Bali che cito nel mio libro “Le coordinate della felicità”, una persona mi disse di un proverbio scandinavo: “Solo un pesce morto segue sempre la corrente.” Ecco, io ero proprio così. Il mio percorso verso la felicità e la realizzazione personale è iniziato quando ho deciso di scegliere consapevolmente. Le prime tre tappe di questo percorso furono lasciare l’Università, trasferirmi a lavorare in Australia e diventare vegetariano dopo aver lavorato per un giorno, per puro caso, in un mattatoio.

Qual è stata la ricchezza e quale la difficoltà di viaggiare in coppia? Come vi siete supportati a vicenda e appreso a trovare nuovi equilibri in contesti mutevoli?

Claudia è senza dubbio la mia più grande fortuna. Non solo perché come partner mi ha sempre supportato in tutti gli infiniti progetti che ho avuto ma anche e soprattutto perché mi ha ispirato con il suo esempio, il suo comportamento e la sua determinazione a realizzare i suoi sogni. È stato un privilegio poter osservare da vicino una persona così intelligente e coraggiosa. Mi ha ispirato tante volte, senza rendersene conto.

Spesso mi viene chiesto qual è il “segreto” del nostro rapporto, visto che diversi lettori del mio libro mi dicono che loro vedono nel partner un ostacolo ai sogni di libertà. Io rispondo che abbiamo fatto nostro uno dei quattro pilastri del vero amore secondo il Buddhismo: Upeksha. Significa “inclusione” e si realizza quando accetti e abbracci completamente l’altra persona senza giudicarla. Quando non vuoi escludere niente di ciò che la caratterizza, compresi i suoi difetti, le sue crepe, le sue ferite e ciò di cui lei si vergogna. Quando non c’è nessuna discriminazione, nessuna separazione, nessuna barriera. Se l’altra persona soffre, tu soffri per lei; se è felice, tu sei felice per lei. Upeksha significa non dire mai: “Questo è un tuo problema, risolvitelo”. Perché il tuo problema è il mio problema e lo risolviamolo insieme.

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Dove hai trascorso questi mesi, durante l’emergenza sanitaria? Come è cambiata la tua vita? Cosa hai osservato attorno a te?

Ero già in Thailandia prima che scoppiasse la pandemia e l’universo ha voluto che trascorressi questo periodo sull’isola di Koh Chang. È un luogo molto turistico in alta stagione e molto selvaggio in bassa stagione. Io ho vissuto soprattutto la seconda fase, acutizzata dal covid-19 che ha svuotato quasi completamente l’isola. Mi sono quindi ritrovato in un primo momento a interagire con tanti viaggiatori e viaggiatrici e in un secondo momento a vivere una situazione in cui io e la mia fidanzata abbiamo potuto goderci una bellissima “solitudine di coppia” immersi nella natura, tra giungla, animali di ogni tipo, spiagge e mare meravigliosi.

C’è una riflessione, su tutte, che condivido volentieri. In Asia ho notato una grande agitazione negli occidentali (sia tra i turisti sia tra coloro che si sono trasferiti a Oriente) e una grande serenità e tranquillità tra le persone del luogo. Questa contrapposizione mi ha dato molto da pensare, perché di fronte a una pandemia siamo tutti nella stessa situazione: il proprietario di un ristorante che non ha più clienti fronteggia gli stessi problemi, che sia americano o thailandese. Ho visto molti occidentali preoccupatissimi per la situazione economica futura e molti thailandesi che invece sembravano quasi contenti di non avere da lavorare troppo. La conclusione a cui sono giunto è che gli asiatici hanno due cose che noi non abbiamo (più): un forte senso di comunità che gli consente di sentirsi sempre protetti e mai soli, anche di fronte alle peggiori sventure; la capacità di reinventarsi, che ho potuto ammirare proprio a Koh Chang osservando ristoratori e proprietari di guesthouse che tornavano a pescare come facevano da bambini con i genitori. D’altronde, lo scopo del lavoro non è mettere cibo in tavola? Suona semplicistico ma in realtà è solo semplice. Perché per loro è proprio così.

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In questo periodo, fra coloro che sperimentano alternative ad una vita all’insegna della produzione e del consumo, oltre ai viaggiatori stanno emergendo anche molte persone che praticano la restanza, il ritorno alla terra, ai Borghi e ad una vita più semplice. Come vedi questo fenomeno?

Penso che sia un meraviglioso gesto di ribellione. In una società che ci spinge a credere di non avere mai abbastanza e ci pungola a correre-correre-correre questa folle gara in cui il traguardo nemmeno esiste, ci vuole coraggio a dire basta. Il coraggio di chi sa di andare incontro a una vita più solitaria, lontana dalla falsa sicurezza della “normalità” in cui tanti si rifugiano per non pensare all’assurdità di un’intera esistenza volta esclusivamente al produrre e consumare. Chi sceglie di tornare alle origini fa esattamente l’opposto, perché significa rallentare, talvolta fino a fermarsi.

Consumare meno e produrre il giusto. Spesso questa scelta nasce da motivazioni molto pratiche e concrete, ma poi diventa anche un ideale, se non addirittura una scelta spirituale. Io sono convinto che vivere un’esistenza più semplice significhi vivere un’esistenza più significativa. La felicità si trova dall’altra parte rispetto alla complessità. Già la vita è inevitabilmente piena di incertezza e noi, oggi, tendiamo a complicarla ancora di più puntando ad essere massimalisti, ad avere più di quello di cui abbia bisogno e sappiamo gestire. Da qui nascono le ansie, lo stress, la depressione e quelle punte di nichilismo che ti attanagliano alla sera prima di andare a dormire, quando pensi che un’altra giornata è andata e non te ne sei nemmeno reso conto.

Tornare alle origini, vivere lentamente e consapevolmente è il rimedio a tutto questo, ne sono certo. E a chi dice che la società non può sopravvivere se tutti facessimo così, beh, questa è la società in cui ci sono più suicidi nella storia dell’umanità. Secondo l’OMS nel 2030 la depressione sarà la malattia più diffusa del mondo e già oggi, in Italia, più di sei milioni di persone utilizzano regolarmente psicofarmaci. Se questa è la società di cui parlano, allora l’idea di ricostruirla da zero con più consapevolezza e riguardo verso il benessere dell’ambiente, degli animali e dell’uomo mi sembra un’ottima idea. Se c’è una cosa che ho imparato dal mio personale percorso è che quando qualcosa non funziona, l’unica soluzione è cambiare. Che sia nella propria ricerca della felicità o in una visione più condivisa della vita.

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