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Ho tre figli: 4, 8 e 11 anni. I due più grandi hanno frequentato quest’anno rispettivamente la seconda e la quinta elementare. Ieri sono arrivate le pagelle, quando le ho aperte ho constatato con rabbia e rammarico che i documenti di valutazione avevano la stessa impostazione di sempre: voti numerici e quel giudizio finale composto raffazzonando frasi fatte, così triste e stereotipato che la lettura del verbale di furto del mio portafoglio scritto dall’appuntato dei Carabinieri l’altro ieri, al confronto, sembrava Leopardi.
Guardo le pagelle e mi chiedo quale sia il reale significato di quei numeri e quelle parole: a chi si riferiscono? Cosa e chi vogliono valutare e misurare?
Quei voti e quel giudizio non sono in realtà riferiti ai bambini e ai ragazzi, ma a noi genitori e rappresentano l’ultima di una lunga serie di ingiustizie, abusi e violazioni commessi in questi mesi di emergenza sanitaria legata al COVID-19 nei confronti delle famiglie.
Oltre al danno della scuola chiusa e di dover fare da insegnanti ai nostri figli ora, con le pagelle, subiamo la beffa finale: quella di essere giudicati come insegnanti dei nostri figli da quella stessa istituzione che avrebbe dovuto istruirli, la scuola.
«Mia figlia era entusiasta alle prime live: dalla seconda settimana ha perso completamente interesse. La trovavo alla scrivania a ritagliare piccolissimi pezzetti di carta mentre la maestra di storia spiegava la lezione» – Marinella, mamma di Giada, terza elementare
È possibile fare da casa 450 ore di scuola?
Ma vediamo perché questi voti e questi giudizi non sono riferiti ai ragazzi, ma alle famiglie. Nella regione in cui vivo – l’Emilia Romagna – la scuola è stata chiusa il 23 febbraio. Facendo un piccolo e rapido conto, da allora i miei figli hanno perso circa 15 settimane di scuola che, per un tempo scuola di 30 ore a settimana, corrispondono a circa 450 ore di scuola perse.
Il circolo didattico a cui appartiene il plesso da loro frequentato si è attivato con una piattaforma per la gestione delle attività didattiche e delle lezioni in presenza tra bambini e docenti il 20 aprile. Dal 20 aprile al 5 giugno – 7 settimane – i miei figli hanno avuto una media di 4 ore a settimana di “live”, ovvero quei momenti in cui incontravano i maestri dal vivo, per un totale di circa 28 ore.
Durante i mesi in cui la scuola è stata chiusa, quindi, i miei figli hanno interagito direttamente con i loro insegnanti per il 6% (28 ore su 450) del tempo previsto dal normale calendario scolastico per la scuola elementare. E già questo dato – che è, ricordo, riferito alla mia personale esperienza, ma che sono certa sia rappresentativo della situazione generale – basterebbe per dare una stroncatura generale alla DAD, la famigerata didattica a distanza che a mio avviso non è degna di chiamarsi tale.
Siccome quella che abbiamo vissuto negli ultimi tre mesi e mezzo – praticamente tutto il secondo quadrimestre – non solo non è scuola, ma è pure dannosa, come mai le modalità di giudizio sono rimaste le stesse?
«Quando facciamo le live mi viene un gran mal di testa: non si riesce a sentire, non si riesce a parlare, non ci capisco proprio niente» – Pietro, quarta elementare
Tu chiamala, se vuoi, DAD
Vediamo ora che cosa è stata la DAD e come è stata vissuta dalle famiglie italiane. Per la maggior parte degli alunni della scuola elementare la didattica a distanza è stata – per il primo mese e mezzo circa di chiusura delle scuole – una somministrazione di compiti.
I compiti sono stati inviati alle famiglie prima sui gruppi whatsapp delle rispettive classi – studia da qui a qui, fai gli esercizi della tal pagina, scrivi il testo per la festa del papà – spesso in giorni diversi a seconda degli insegnanti. Poi gli insegnanti hanno iniziato a caricarli sul registro elettronico. Da aprile sulle varie piattaforme di e-learning scelte dai circoli didattici.
Le discrepanze da insegnante a insegnante e da classe a classe nella modulazione della didattica si sono, a questo punto, intensificate: c’è stato chi ha continuato a caricare le immagini delle fotocopie storte fatte con il telefonino; chi ha caricato video “carini e divertenti” presi dai vari social; chi voleva che gli elaborati venissero rimandati via mail, chi sulle board della piattaforma, chi nella chat dell’aula. Alcuni insegnanti caricavano i compiti il lunedì mattina, altri il lunedì sera, altri il mercoledì per quello successivo.
Poi sono arrivate le live: impossibile avere un calendario chiaro che non variasse di settimana in settimana per orario e materie, in un delirio e in una frammentazione comunicativa che ha messo alla prova tutti i genitori, anche i più preparati, ovvero coloro che avevano tempo e risorse da mettere a disposizione dei figli in un momento così delicato.
«Vi dico come la penso: per me le live possono farle la mattina, il pomeriggio o la sera… che le facciano quando vogliono. Tanto i bambini hanno perso ogni interesse per la scuola» – commento di Luigi, papà di Domenico, nella chat di classe sulla proposta degli orari delle live
Finire il programma: una corsa contro il tempo e contro il buonsenso
E coloro che non avevano tempo (ricordo che il tempo scuola medio per le elementari è pari a 30 ore a settimana per ogni figlio e che la maggior parte delle persone durante l’emergenza COVID-19 ha continuato a lavorare), capacità (una diploma o una laurea) e strumenti (linea internet veloce, pc al posto di tablet o telefonino) come hanno fatto? Semplicemente non hanno fatto: non hanno potuto seguire i bambini.
I nostri figli sono rimasti in balia di loro stessi per quanto riguarda il percorso scolastico in un momento in cui, oltre alla scuola, avevano perso tutto il resto, anche la possibilità di uscire a prendere una boccata d’aria, cosa sempre concessa peraltro ai cani e ai loro padroni.
I miei figli sono partiti con impegno: le primissime settimane a casa erano motivati e autonomi come sono sempre stati, avevano bisogno della nostra supervisione, ma andavano da soli, anche perché in quel primo periodo – in cui tutti abbiamo pensato che la scuola avrebbe riaperto i battenti, male che potesse andare, dopo Pasqua – gli insegnanti non sono andati particolarmente avanti con il programma.
Poi tutti (genitori, insegnanti, bambini) abbiamo capito che avremmo finito l’anno a casa e i maestri – soprattutto quelli delle classi di fine ciclo, ovvero quinta elementare e terza media – sono stati presi dall’ansia e dalla frenesia di dover completare il programma ministeriale.
Faccio un esempio. Giulio, che ha frequentato la quinta elementare, dal 10 aprile ha affrontato, solo per italiano, i seguenti nuovi argomenti: condizionale, congiuntivo, imperativo, infinito, gerundio, participio, verbi attivi e passivi, frasi attive e passive, verbi riflessivi propri e impropri, analisi logica, ripasso dell’analisi grammaticale, composizione di un testo giornalistico, testo poetico e parafrasi, testo descrittivo. In geografia ha studiato da solo, durante il lockdown, tutte le regioni italiane. Tutto questo vedendo in presenza – durante le live on line – la maestra titolare di queste materie per circa 14 ore, indicativamente quelle che avrebbe trascorso insieme a lei in una settimana di scuola.
«Lucio non lo riconosco più: era autonomo e appassionato, mai che gli dovessi dire di mettersi al compito. Ora non riusciamo a stare in pari: piange ogni volta che gli nomino il compito» – Vittoria, mamma di Lucio, seconda elementare
Gli ultimi saranno ancora più ultimi
In questo scenario ben presto i bambini e i genitori non ce l’hanno più fatta e la DAD è stata la cartina tornasole di un sistema scolastico che già in presenza aveva mostrato grossi limiti – di cui parleremo tra poco.
La situazione emergenziale ha portato a un massimo livello di estremizzazione l’annosa questione sull’opportunità e l’efficacia dei compiti a casa sottolineata da tanti pedagogisti, tra cui Daniele Novara, il quale da anni denuncia come i «compiti esercitativi stanno trasformando indebitamente le famiglie in un doposcuola». In questo caso ai compiti si sono aggiunti il completamento del programma ministeriale e le scuole chiuse e le famiglie si sono trasformate da doposcuola nella scuola stessa.
Risultato? Una parte di chi eccelleva – magari perché da sempre seguito e supportato dalla famiglia, e anche su questo ci sarebbe da aprire un enorme dibattito – ha continuato ad eccellere. Altre eccellenze, non trovando nel confronto continuo e proficuo con il gruppo quella linfa vitale che permettesse loro di indirizzare e condividere con gli altri le competenze e le conoscenze al di sopra della media, si sono spente, perdendo completamente l’interesse nei confronti dell’apprendimento. Quelli che andavano benino hanno sicuramente perso terreno. Quelli per i quali, per svantaggio sociale, linguistico, di apprendimento o cognitivo, la scuola era un faro e un’ancora sono stati letteralmente abbandonati.
Questa situazione ha causato nelle famiglie un senso di profonda inadeguatezza, frustrazione e stress: di fronte a quei voti che non sappiamo come siano stati dati – qualcuno si è degnato di spiegarci quali sono stati i criteri di valutazione scelti? È accaduto a pochi, eppure qualche voce autorevole sul tema si era levata – e davanti a quel giudizio che etichetta la maggior parte dei bambini come “poco e scarsamente partecipi alla DAD e soprattutto alle live”, noi genitori ci siamo, ovviamente, sentiti giudicati colpevoli di non avere dato loro un’adeguata istruzione proprio da quella istituzione che avrebbe dovuto istruirli.
Fine prima parte.
Leggi la seconda parte dell’articolo
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