La responsabilità dei media durante il coronavirus
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Siamo in pandemia. Le notizie allarmanti si susseguono con impressionante intensità: il numero di morti e di contagiati, la gravità delle misure restrittive e le difficili condizioni di vita durante la quarantena rimbalzano dalla prima pagina di giornale al sito online, alla televisione, alla radio, ai social network. Sembrerebbe che la naturale tendenza dei media a dare ampio risalto a informazioni preoccupanti sia stata ingigantita dalla portata del fenomeno coronavirus.
Ma forse non è così. Perché dall’inizio dell’epidemia (o quanto meno da quando se n’è cominciato a parlare diffusamente) l’atteggiamento dei vari mezzi d’informazione riguardo alla notizia è variamente cambiato. E questo a prescindere dalla gravità della situazione. Per esempio: il 22 febbraio, quando in Italia la situazione stava peggiorando, ma era ben lontana dal plateau di contagi e decessi di questi giorni, vari giornali nazionali titolavano espressioni tremendamente allarmiste. La Repubblica scriveva: “L’emergenza. Virus, il Nord nella paura”, mentre Il Giornale titolava: “Esplode il contagio. Italia infetta”, il Messaggero: “Avanza il virus, Nord in Quarantena”, il Manifesto: “Fermi tutti”[Qui puoi trovare le immagini delle prime pagine].
In quel momento era stato confermato il primo morto e era stata predisposta la quarantena per circa 50.000 persone, principalmente in Lombardia. Molte persone, prese dal panico, hanno cominciato a fare scorta di alimentari e beni di prima necessità, a fare incetta di mascherine e gel igienizzante, spesso creando assembramenti nei supermercati e nelle farmacie e favorendo così la diffusione del virus. Pochi giorni dopo, l’epidemia si è rapidamente diffusa e sono aumentati i morti e le misure restrittive, c’è stata l’istituzione di nuove zone rosse, la chiusura di scuole, università, chiese, fino alla più recente chiusura di tutte le attività produttive considerate non necessarie.
Ma i giornali, in un primo momento così allarmisti, mostravano toni più pacati: l’esempio più eclatante è il radicale mutamento di rotta di Libero, il quale, dopo aver titolato “Prove tecniche di strage” il 23 febbraio, ed aver accusato il governo di inefficienza, solo quattro giorni dopo stampa in prima pagina: “Virus, ora si esagera. Diamoci tutti una calmata.” Il 28 febbraio il Messaggero invece titola: “Più guariti, virus mutato in Italia”, il Manifesto: “I numeri caleranno. E non è un trucco”, mentre Il Giornale scrive: “Basta psicosi. Isolato Conte, il Nord riparte.”
Cos’è successo in quei pochi giorni? Le conseguenze del virus in Italia sono peggiorate, ma molti giornali hanno deciso, dopo aver cavalcato l’onda della prima paura, di fare marcia indietro. Dopo aver contribuito a diffondere il panico con notizie gonfiate (non era vero che il 22 febbraio tutto il Nord fosse in quarantena, lo sarebbe stato solo successivamente, con il resto dell’Italia, e le restrizioni valevano solo per i comuni identificata come zone rosse), hanno cercato più o meno di contenerlo, spesso contraddicendo ciò che avevano affermato poco tempo prima. Altri giornali, come La Repubblica, in quei primi momenti hanno mantenuto un atteggiamento più o meno costante, mentre il Corriere della Sera e La Stampa si sono mantenuti meno allarmisti e più pacati nei toni. L’Espresso, invece, alza il livello di allarme con il titolo del primo marzo: “Sanità distrutta, nazione infetta”.
Un altra grave evidenza della responsabilità dei media nella gestione dell’emergenza coronavirus è emersa l’8 marzo, quando è trapelata la bozza del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che avrebbe istituito un’unica zona rossa per tutta la Lombardia, e di altre province tra Veneto, Emilia-Romagna, Marche, e, in misura minore, altre regioni. Spaventati dalla possibilità di rimanere “intrappolati” nelle zone soggette a restrizioni, lontani dalle famiglie e più vicini all’epicentro del contagio, molti italiani hanno deciso di ritornare ai luoghi di origine, assaltando i treni in massa, rendendo di fatto meno efficaci le misure di contenimento. La notizia, secondo il Fatto Quotidiano, è apparsa dapprima sul sito di Corriere.it, per poi essere diffusa da altri quotidiani online e tramite gruppi Whatsapp e Facebook; inoltre, la CNN afferma di aver ricevuto copia del DPCM dalla Regione Lombardia, che però nega. Le responsabilità prime non sono chiare: emerge però la certezza che la diffusione di questa notizia, prima che il Decreto fosse effettivamente attivo, ha fortemente indebolito la sua efficacia e ha invece favorito il diffondersi del virus in altre parti d’Italia.
Al di là dei casi di titoli eclatanti e di più o meno volontarie fughe di notizie, una questione più complessa è quella legata all’interpretazione dei dati che vengono forniti dai media, siano essi cartacei, digitali, televisivi o radiofonici. Spesso i dati raccolti da enti diversi non corrispondono; oppure vengono utilizzati metodi diversi per conteggiare i malati, i contagiati, i morti. Spesso i media, soprattutto tele- e radiogiornali forniscono solo i dati relativi ai morti o ai contagiati e non ai i guariti. A volte è difficile capire se si stia parlando di tasso di letalità, che è il numero di morti sul numero di malati di una certa malattia entro un certo tempo, o di tasso di mortalità, cioè il numero di morti per una determinata malattia sul totale della popolazione [Qui un utile glossario sul coronavirus].
Alcuni hanno inoltre cercato di distinguere tra morti “di” o “con” coronavirus per sottolineare l’incidenza delle malattie pregresse sulla effettiva letalità, anche se c’è chi, come il virologo Roberto Burioni, è contrario a segnalare questa differenza perché teme che significhi sminuire la gravità della situazione. Inoltre, sul conteggio dei contagiati, e di tutto il resto di conseguenza, influisce anche il numero di tamponi e a chi vengono fatti. Dal 26 febbraio, per esempio, non vengono più fatti tamponi agli asintomatici (che potrebbero comunque avere il virus): ciò “abbassa” il numero di contagiati rispetto a quello reale, ma di conseguenza “aumenta” il tasso di letalità, perché il numero di morti viene diviso per un numero di malati che è però inferiore a quello reale [L’Agi spiega queste ed altre cose qui, in un utile articolo].
Chiaramente, tutte queste notizie e dati non possono proteggerci dal dolore di aver perso una persona cara, dalla sofferenza di vivere in quarantena, dal timore di essere licenziati. Tuttavia, se interpretati correttamente, possono aiutarci a modificare il nostro comportamento in base alle reali condizioni in cui ci troviamo. In momenti di emergenza, basarsi su fonti d’informazione affidabili e chiare può aiutare a superare meglio le difficoltà: è quindi necessario che ogni tipo di media sia consapevole della propria responsabilità in tempo di crisi e del fondamentale impatto che le informazioni veicolate hanno sulla vita delle persone. Allo stesso tempo, i cittadini dovrebbero essere attenti nell’interpretazione dei dati e delle notizie che ricercano; e soprattutto, da quanto abbiamo visto, mai fermarsi al titolo.
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