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Agrigento - Cosa (e come) potrebbero e dovrebbero diventare l’Italia e il mondo non appena avremo messo il punto a questa terribile pandemia? Da questa suggestione ha preso avvio il nuovo progetto di Andrea Bartoli, fondatore del centro culturale Farm Cultural Park a Favara (Sicilia). Come lui stesso scrive ci sono due buone notizie: “C’è un mondo da ripensare e abbiamo il tempo per farlo”.
Partendo dai suoi contatti personali, Bartoli ha quindi coinvolto “100 amici-visionari” per riflettere e immaginare nuovi scenari all’indomani dell’emergenza COVID-19. Accogliendo la provocazione di non voler tornare alla “normalità” perché quella era il problema, professionisti sociali e culturali immaginano e progettano il futuro che verrà. Tra l’incertezza per i cambiamenti in atto e i possibili scenari, la cultura è certamente il punto di partenza.
L’idea, infatti, ha subito trovato la simpatia di altre realtà nazionali, come Agcult e OFL Architecture, spingendosi fin oltre confine, in Messico, dove la medesima iniziativa è stata replicata da un operatore culturale in contatto con la Farm. Anche i giovanissimi sono scesi in campo con la fabbrica under 14 organizzata dalla figlia di Bartoli e l’Erasmus generation (under 18).
Tante le riflessioni che stanno emergendo e che grazie all’aiuto di Giancarlo Sciascia proveranno a prendere forma. Una moltitudine di contenuti a servizio delle comunità e la possibilità concreta di coltivare un’intelligenza collettiva in armonia con il mondo che abitiamo.
Vi proponiamo alcuni estratti delle tante idee arrivate in questi giorni ad Andrea Bartoli.
Ripartire da un’Italia “consistente” (di Marcella Mallen)
“[…]Senza competenze non c’è lavoro produttivo, non c’è equità né qualità, non c’è spazio per la partecipazione civica, non c’è ambiente favorevole all’innovazione e alla creatività. Senza competenze non si può costruire una cultura inclusiva e meritocratica in grado di valorizzare la diversità di genere, di genti, di generazioni […]”.
Il potere della bellezza (di Zaira Magliozzi)
“In questi giorni mi faccio tante domande. E trovo poche risposte. Forse sto solo aspettando. Guardo fuori dalla finestra e aspetto. Non lo so come sarà il mondo dopo, ma so a cosa non voglio rinunciare e so cosa voglio portare con me in quel dopo. I ricordi dei momenti più vividi e intensi. Quelli che si sono fissati nella memoria e che non vanno via. Che stanno lì nel profondo, da qualche parte e che riaffiorano per ricordarti le cose veramente importanti della vita. È da qui che farei i primi passi quando tutto questo sarà finito. Mi sono resa conto che quei momenti, per me, sono spesso legati alla Bellezza. […]”
La fiducia come “bene comune” (di Ilaria Vitellio)
“[…]La fiducia è uno dei beni comuni “per eccellenza”, essa è costruita ed alimentata da un sistema di relazioni condivise, è la misura dell’affidamento reciproco tra attori, tra istituzioni, cittadini, imprese.
Riprodurre la fiducia, implica una relazione di reciprocità tra le parti, il rispetto di regole condivise e riconosciute come socialmente significative. La fiducia come risorsa collettiva, si crea e si rigenera in una cornice in cui il riconoscersi reciproco tra le parti costituisce una dimensione socialmente significativa dell’agire. Il digitale, in questo, si è rilevato come un potente mediatore di relazioni sociali e un abile interfaccia tra cittadini e istituzioni e tra queste, ma può diventare anche quel vettore attraverso cui si riafferma il modello europeo dell’acceso, dell’uso e dell’integrazione dei dati sicuri e protetti (lasciandosi alle spalle modelli alternativi non coerenti con questo modello).[…]”.
Infine c’è questo, un estratto più lungo.
Anna Spreafico da Istanbul:
“Due anni fa sono diventata mamma di un bellissimo bambino di nome Emiliano. Ricordo che, nonostante mi ripetessi che non dovevo caricare mio figlio delle nostre aspettative di genitori, per tutta la gravidanza la mia mente vagava a come sarebbe cresciuto, alle mille e più esperienze che gli avrei fatto vivere, a dove avrebbe studiato, alle lingue che avrebbe parlato…
Emiliano è nato affetto da una rarissima malattia genetica regressiva: Ipoplasia Pontocerebellare di Tipo 2A. 12 ore dopo essere nato Emiliano è stato trasferito in terapia intensiva.
Sono passati poi 90 interminabili giorni. 90 giorni di paure. 90 giorni di incertezze. 90 giorni di gioie negate. 90 giorni in cui prendere lentamente coscienza che una volta che Emiliano sarebbe uscito dall’ospedale nulla sarebbe stato come ce lo eravamo immaginato, che tutto sarebbe stato diverso. All’epoca ci dicevamo estremamente più duro. Estremamente più doloroso.
Sono passati due anni e sì, è estremamente duro e faticoso. Sì c’è anche del dolore. Ma la gioia che Emiliano ha portato nelle nostre vite è incalcolabile ed è infinite volte più grande del dolore e della fatica. Emiliano ha completamente sovvertito la scala delle nostre priorità e ci ha dato delle nuove lenti con cui guardare al mondo.
Quando Andrea mi ha posto la sua domanda mi è venuto spontaneo fare un parallelismo con la mia storia personale. Vedo questo periodo di quarantena un po’ come i primi 90 giorni della vita di Emiliano. Sono giorni di paure e tante incertezze, ma sono anche giorni che ci servono per metabolizzare e prendere coscienza del fatto che non andremo più dove abbiamo sempre sognato di andare. […]”.
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