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“Una scuola senza muri”. È questo il titolo del libro scritto da Laura Bosio, che dal 2015 dirige a Milano la scuola di italiano per migranti Penny Wirton, nata a Roma per iniziativa di Eraldo Affinato e Anna Luce Lenzi e poi diffusa in molte città d’Italia. La abbiamo intervistata e ci ha raccontato come è nato e come si è sviluppato questo progetto educativo nel nostro Paese approfondendo con lei anche alcuni aspetti legati ai temi dell’accoglienza e dell’integrazione in Italia.
Buongiorno Laura, puoi presentarti?
Sono una scrittrice e lavoro da anni come editor. Dal 2015 dirigo a Milano la scuola di italiano per migranti Penny Wirton.
Cos’è e come è nata la scuola?
La Penny Wirton è stata fondata a Roma nel 2008 da Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi. Si è poi diffusa in molte città d’Italia, da nord a sud, e ora anche nella Svizzera ticinese. Esistono ormai circa cinquanta Penny Wirton, ciascuna autonoma nella gestione interna e sul territorio, ma tutte accomunate da una Carta d’Intesa che precisa lo “spirito”, lo “stile” della scuola.
Qual è il tuo ruolo in questa scuola?
Sono la responsabile e coordino tutte le attività. Ma la nostra scuola non sarebbe possibile senza l’apporto dei tanti insegnanti volontari che ne fanno parte. Nello scorso anno scolastico è stata frequentata da circa 350 studenti, non tutti contemporaneamente presenti, seguiti nell’apprendimento dell’italiano da circa 150 insegnanti. Siamo spesso pigiati nelle aule, eppure riusciamo a isolarci nelle lezioni gomito a gomito. Credo succeda perché al movimento delle vite dei nostri allievi noi ci adattiamo, includendolo.
Come funziona e chi la frequenta?
La nostra scuola è totalmente gratuita e autofinanziata. Non ha classi e la didattica si basa sul rapporto diretto insegnante-studente, uno a uno, o piccoli gruppi. Al centro c’è la persona: accogliamo i nostri studenti al livello di conoscenza dell’italiano e degli studi in cui sono e li portiamo il più avanti possibile nell’acquisizione della lingua, in uno scambio che è anche di culture. Abbiamo allievi di ogni età e parte del mondo: africani, europei dell’est, asiatici, latinoamericani.
C’è un episodio o una storia che ti ha particolarmente toccato in questi anni o che ha insegnato a te qualcosa?
Sì, la storia di una donna nigeriana che nel libro ho chiamato Annabel, ho preferito cambiare tutti i nomi, per discrezione. Annabel si era presentata a scuola con un bambino di otto mesi. Era analfabeta nella lingua d’origine ed era felice, letteralmente, dei suoi libri e dei suoi quaderni, di sentirsi per la prima volta una studentessa. Con il bambino, che gattonava sui banchi senza mai frignare, era molto affettuosa. Il suo bambino era nato da uno stupro. In Libia Annabel era stata presa, immobilizzata, violentata e poi scacciata. Era incinta quando era sbarcata in Italia. Ha chiamato il suo bambino Destiny.
Qual è l’atteggiamento degli studenti al loro ingresso a scuola e cosa cambia con il tempo?
All’inizio sono spaesati, ma il rapporto uno a uno con gli insegnanti dopo poche lezioni li mette a loro agio: li aiuta nell’apprendimento della lingua e insieme nella costruzione dell’identità, in uno scambio reciproco.
Cosa intendi quando parli di “anarchia responsabile” della vostra scuola?
Penso alla responsabilità individuale di ciascuno di noi e del modo in cui la mettiamo in comune. A un “noi” fatto di tanti “io” plurimi, aperto, inclusivo, capace di relativizzare le differenze.
Nel tuo libro fai riferimento ad alcuni pregiudizi ancora esistenti nel nostro Paese verso i migranti africani ma anche verso i rom e i sinti. Cosa puoi dirci in proposito? Quali sono i pregiudizi più diffusi e come smontare queste false credenze?
Uno dei nostri primi allievi è stato un ragazzino rom. Una volta si era presentato a lezione in ritardo, agitato. Era stato pescato sull’autobus senza il biglietto, il controllore lo aveva fatto scendere, com’era giusto, lo riconosceva anche lui, ma prima che le porte si richiudessero gli aveva dato un calcio. E lui questo non poteva riconoscerlo. “Sono nomadi, ladri per natura” dicono di loro, “non sanno fare altro che vivere di espedienti”, “rifiutano di lavorare”, “vanno eliminati”, verbo spaventoso. E pensare che la maggior parte – a dirlo sono i dati di ricerche attendibili – vorrebbero vivere in alloggi “normali” pagati con il lavoro, come molti già fanno, in case provviste di acqua, luce elettrica e gas per scaldarsi e cucinare. Ma chissenefrega dei dati, largo alle ruspe. Il sovranismo vive di queste messinscene grottesche e crudeli.
Cosa pensi della situazione italiana in tema di accoglienza, integrazione?
Alcune cose si fanno, nonostante gli sproloqui a volte disumani e i decreti insensati degli oppositori. Ma chi come noi, a tu per tu, vede ogni giorno negli occhi delle persone l’oltraggio del diritto a migrare, un diritto sancito nella Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, del 1948, si sente spinto a combattere per ripristinarlo.
Cosa potrebbe fare ognuno di noi per contrastare la rabbia e l’odio verso i migranti?
Non chiudersi a riccio nel proprio illusorio benessere, ma guardare, provare a capire, andare incontro. Riconoscere e scardinare le propensioni contrarie. Abbattere i muri lavorando dentro se stesso. In questo senso la nostra scuola è anche un luogo di resistenza etica.
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