Rob Hopkins: “Come sarebbe se mettessimo l’immaginazione al centro?”
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In questi tempi di caos e di grande divisione se c’è un consenso su qualche cosa è sul fatto che il futuro sarà terribile. L’intreccio fra tecnologia, politica, economia e società assomiglia sempre di più al copione di qualche distopia fantascientifica, mentre il cambiamento climatico richiama alla mente scenari apocalittici.
L’incapacità di immaginare un mondo in cui le cose siano differenti, secondo Rutger Bregman, non è tuttavia prova dell’impossibilità di un cambiamento, ma solo di una scarsa immaginazione.
“Non c’è alternativa” , era il motto di Margaret Tatcher, e ancora oggi non riusciamo a scrollarci di dosso quella sensazione di impotenza che parte dall’immaginazione, perché per essere artefici della nostra vita dobbiamo conoscere, almeno con il pensiero, una serie di modi di vivere alternativi.
Il problema, dunque, è narrativo. La stessa crisi climatica, così tangibile e materiale, secondo attivisti e scrittori come Naomi Klein, Amitav Ghosh e Davide Wallace-Wells è frutto di un fallimento dell’immaginazione.
A partire da questo tipo di riflessioni Rob Hopkins, fondatore del movimento delle Transition Towns, ha dedicato gli ultimi due anni a ricercare le ragioni alla base dell’attuale declino dell’immaginazione, le buone pratiche per rivitalizzare questo muscolo assopito e numerosi esempi di iniziative locali ricche di immaginazione per una vita migliore e più sostenibile.
“Abbiamo la capacità di fare cambiamenti enormi – ha argomentato Hopkins – ma stiamo fallendo perlopiù perché abbiamo lasciato deteriorarsi uno strumento chiave: l’immaginazione umana. L’immaginazione è la capacità di guardare alle cose come se potessero essere altrimenti. È la capacità di chiedersi ‘come sarebbe se…?’ e se c’è mai stato un tempo in cui tale capacità è necessaria – è oggi”.
Certo, non è facile. Per maturare nuove idee abbiamo bisogno di aria aperta, di tempo e di spazio, o ancora di non sentirci sopraffatti. L’immaginazione ha bisogno di tempo e di attenzione e i nostri smartphone, per esempio, ce ne deprivano continuamente. Come creare dunque una nuova cultura in cui avere tempo e spazio? Cosa possiamo fare?
L’attivista Manish Jain ha fatto partire la sua battaglia dalla scuola: “Una delle cose che mi disturba di più a livello di giustizia e di moralità è che abbiamo un’istituzione globale che sta etichettando milioni e milioni di persone innocenti come falliti”, ha affermato.
La cultura della competizione e del confronto mina alla base collaborazione e immaginazione. In India “l’istruzione ha detto alle persone che coloro che parlano le lingue locali sono incivilizzati, non moderni e non hanno alcun contributo significativo da portare al progresso del mondo. Solo gli esperti sanno”. Jain ritiene invece che le lingue e le culture locali, strettamente collegate alla biodiveristà, vadano valorizzate perché sono fonte di saggezza e di immaginazione.
Il lavoro di Hopkins, dettagliatamente riportato nel suo blog dall’evocativo nome “Imagination Taking Power”, ovvero l’immaginazione al potere, è recentemente culminato nel libro “From What Is to What If”, pubblicato questo 17 ottobre. Il libro racconta storie provenienti da tutto il mondo di progetti che stanno mettendo l’immaginazione al centro di ciò che fanno e nel farlo immaginano una nuova economia e democrazia.
Quella di Hopkins è una chiamata ad agire, per un rinascimento dell’immaginazione. Mentre aspettiamo la pubblicazione di una traduzione italiana possiamo iniziare a domandarci collettivamente (perché l’immaginazione non è solo un atto individuale): Che aspetto avrebbe la società se valorizzasse più l’immaginazione dell’innovazione? E se considerassimo l’immaginazione come un aspetto vitale della nostra salute? E se iniziassimo a porci delle domande diverse?
Foto tratte dal blog di Rob Hopkins
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