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Entra in vigore la legge che impone l’obbligo, quando si trasportano dei minori in tenera età, di dotare l’autovettura di seggiolini anti abbandono. La notizia in sé può apparire consolatoria e rassicurante, d’ora in poi ci sarà un altro apparato tecnologico che potrà sostituire una prestazione umana.
Ma questo nuovo macchinario, l’uso imposto per legge e ancor più il motivo che lo ha reso “necessario” non possono non far suscitare alcuni pensieri.
1. Stiamo parlando di genitori che si scordano di avere i figli con sé, addirittura quando ci sono condizioni estreme come un gran caldo o altro. Dopo averli presi con sé da poco tempo.
2. Che tipo di legame possiamo dire vi sia tra generazioni diverse?
3. Quali sono le qualità della vita degli adulti che precipitano in questo vuoto di coscienza di sé che li porta a perdere la percezione della propria identità di genitori.
4. Al di là del seggiolino con i sensori, cosa possiamo fare per volgere questa tragedia esistenziale ad un vitalità più equilibrata e sensata. In una prospettiva individuale, oltre che sociale e comunitaria.
Sono solo alcuni spunti che possono scaturire e certamente non i più profondi.
Il distacco, affettivo e non solo, della prole dai genitori non può che favorire l’insorgere di fenomeni estremi, come pure di situazioni “normali” in cui genitori e figli cessano di essere entità sufficientemente interrelate ancor prima che le regole del buon senso lo consentano.
Naturalmente non si tratta di colpevolizzare chi vive queste situazioni, che hanno origini varie e spesso forzate e che ne vedono sofferenti prima di tutto i protagonisti. Ma proprio per la “normalità” o la “banalità” di questa circostanza le ricolloca in un ambito culturale diffuso e non certo in quello della patologia singola ed eccezionale.
Questo ci coinvolge, o dovrebbe coinvolgere, tutti in un tempo di riflessione profonda e di indagine su quali siano i percorsi che stiamo praticando senza chiederci qual è il senso della nostra marcia a volte forsennata.
Sembrerebbe opportuno che si sviluppasse e che venisse frequentato senza ritrosie, anche in ambienti aperti laici e tesi ad un futuro di convivenza solidale, un confronto dialettico e costruttivo sul concetto di famiglia moderna. Questo tema non può essere lasciato nella piena ed esclusiva disponibilità di attori che ne danno facili interpretazioni, pensate ed esercitate per affossare ogni potenzialità evolutiva sia individuale che sociale di questo fondamentale ente.
Quando si sollevano i temi dell’educazione e dell’istruzione, anche nelle elaborazioni delle intelligenze più brillanti ed influenti, l’ente famiglia non compare. O se compare lo si dà per definitivamente estinto. Si concentra l’attenzione sull’apparato tecnico che dovrebbe surrogare le funzioni della stessa.
Un dibattito sterile e destinato a produrre fallimenti, e basta uno sguardo anche superficiale agli accadimenti quotidiani per registrarne a vagoni o a container (per rimanere nell’ambito delle merci). Non si tratta di riproporre o riprodurre acriticamente modelli superati, sia in ambito educativo che dell’istruzione, ma di procedere ricomprendendo nei nostri sforzi i concetti di socialità, individualità, natura, storia, libertà e responsabilità.
La tecnica non è tutto e nel suo progredire non riassume la complessità delle aspirazioni e delle necessità di noi umani abitatori in cerca di un’ecologia degna delle nostre potenzialità.
Il post moderno ha evidenziato, essendone cantore, che il vivere la realtà come un “banale” susseguirsi di “qui ed ora” è propria di una vita di cartapesta destinata a squagliarsi come una scenografia di una qualche festa di piazza. Appare necessario appropriarsi della capacità di trovare il giusto respiro, sintetizzando tempo, conoscenza, storia e luoghi interiori ed esteriori.
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