21 Nov 2019

Outdoor education per recuperare i “ragazzi difficili” – Io faccio così #269

Scritto da: Francesco Bevilacqua
Intervista di: Francesco Bevilacqua e Paolo Cignini
Video realizzato da: Paolo Cignini

Luigia Mennuti è una docente che insegna in un istituto di formazione che accoglie molti giovani con storie difficili, a forte rischio di abbandono scolastico. Per farli crescere come persone e come studenti ha pensato di affidarsi all'educazione all'aria aperta.

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Mentre aspettiamo Luigia osserviamo i disegni appesi nella bacheca della sala comune di Fomal, un ente di formazione che accoglie ragazzi e ragazze adolescenti, molti dei quali con fragilità, che hanno già abbandonato la scuola e cercano di ottenere le competenze e un pezzo di carta in grado di garantire loro un futuro.

Un cavallo con la criniera al vento, il volto di un bambino, quello di una giovane donna, un panda, il dettaglio di un occhio. Una struttura mentale fortemente condizionata dai pregiudizi generati da questa società mi induce a pensare che giovani “difficili” non possano esprimere una tale bellezza nei tratti grafici e nel modo di interpretare i soggetti scelti. Eppure è proprio così.

Pochi minuti dopo siamo accomodati attorno a un tavolo insieme a Luigia Mennuti, docente, a parlare proprio di questo tema: «Tutti hanno bisogno di essere ascoltati, magari solo in maniera differente», spiega. Il suo “ascolto” è passato attraverso un progetto di cui lei stessa si è fatta promotrice: estrapolare la sua classe dal contesto scolastico e farle trascorrere tre giorni in mezzo alla Natura.

Il luogo prescelto è stato Montopoli, la casa di Nature Rock, una delle prime esperienze in Italia di outdoor education. «Abbiamo dormito nella yurta con i sacchi a pelo e le torce frontali – racconta Luigia –, abbiamo trascorso le nostre serate davanti a un falò, i ragazzi hanno visitato il bosco. Ci siamo messi in gioco, non c’era elettricità, l’acqua la caricavamo nei barili, si cucinava tutti insieme, abbiamo fatto la pizza in un forno in terra cruda».

Naturalmente non si è trattato di una semplice gita scolastica. Uno degli obiettivi era quello di far emergere il carattere e le caratteristiche di ciascuno, cementare il gruppo e porre le basi per il percorso educativo dell’anno che stava iniziando. Infatti, come spiega Luigia, «abbiamo individuato criticità e punti di forza che sono poi stati riportati all’equipe educativa per elaborare un piano didattico».

Ma la parte del leone in questa esperienza l’hanno giocata le emozioni. Forti, a volte destabilizzanti, capaci di mescolare i sentimenti costringendoli così ad emergere. Per stimolare questo processo, mentre erano a Montopoli Luigia ha chiesto a ciascuno di loro di scriversi una lettera: «Abbiamo chiesto di usare solo parole gentili, di ringraziarsi per essere arrivati sin lì e incoraggiarsi a fare sempre meglio. È stato un momento difficile, ciascuno di loro si è isolato per riflettere. Una ragazza mi ha chiamato per dirmi: “Prof., fa malissimo!”. Le lettere sono ancora sigillate, contengono ricordi dal campo, foglie secche e disegni. Alla fine riconsegnerò loro le buste, che rappresenteranno non solo una testimonianza di quei tre giorni, ma anche un incoraggiamento per ritrovare fiducia e autostima nei momenti negativi, per capire che loro valgono».

outdoor education

Il contesto naturale ha influito positivamente su questo processo emotivamente dirompente: «È stato tutto svolto all’insegna di ciò che la Natura ci regalava: il nostro salotto era all’aperto, vedevamo il cielo ed era bellissimo. Stavamo in circolo, mantenendo la posizione con un certo sforzo nelle prime due giornate. Il terzo giorno invece i ragazzi si sono disposti spontaneamente in cerchio per comunicare fra di loro, per ascoltarsi reciprocamente. In classe sarebbe stato molto più difficile!».

Luigia ci racconta un paio di aneddoti che testimoniano la riuscita dell’esperimento di outdoor: «Quando siamo arrivati c’è stato un attimo di panico perché non c’erano linea né elettricità. Abbiamo stabilito dei turni per andare a caricare il telefono: al primo hanno fatto a gara, al secondo turno… c’era solo il mio! Si erano completamente dimenticati, erano presi dalla Natura calma ed equilibrata che li circondava, dallo stare insieme. Conoscersi, esplorarsi ed esplorare il mondo intorno ha richiesto tutte le loro energie e il telefono è diventato superfluo». Un altro elemento significativo è emerso durante il viaggio in treno: «Siamo partiti divisi in due vagoni, non ho voluto forzarli a stare tutti insieme per rispettare i loro tempi. Al ritorno erano tutti non solo nello stesso vagone, ma addirittura su tre soli sedili! Quello è stato un bel segnale».

Ingenuamente ci chiediamo e le chiediamo come mai questo tipo di esperienze così efficaci nell’accorciare le distanze e favorire l’apprendimento reciproco non riesca ad affermarsi: «La ricettività rispetto a questi progetti c’è soprattutto nelle scuole dell’infanzia – risponde Luigia –, questo è un periodo abbastanza florido, la parola “outdoor” si sta diffondendo. C’è più difficoltà nell’introdurla nelle scuole di secondo grado e credo che il problema siano i programmi da rispettare e le scadenze imposte ai docenti, bloccati da una burocrazia lenta e inutile, che devia l’attenzione sulle carte togliendola dagli studenti».

nature rock

Secondo Luigia è fondamentale il concetto di “stare bene”: «Questi progetti aiuterebbero tantissimo, bisognerebbe capovolgere il punto di vista: la scuola dovrebbe creare prima di tutto benessere, inteso come stare bene, avere voglia di presentarsi in classe non perché c’è bisogno di un voto o di un titolo di studio, ma perché c’è voglia di crescere insieme, studenti e insegnanti. Quando entro in classe e i ragazzi capiscono che anche io, docente, sono lì per imparare, allora si lavora meglio. Se ci si basa su questo allora diventa tutto più facile, anche parlare di Dante e Promessi Sposi».

Luigia parla senza sosta mostrando con disinvoltura un entusiasmo di cui non ho memoria se ripenso ai miei professori delle superiori: «Il mio ricordo è che al liceo si stava seduti ad ascoltare, ma io sentivo il bisogno di una scuola diversa. Il mio primo discorso alla classe è stato: “Mi raccomando non abbiate paura a farmi domande, ci sarà uno scambio reciproco, siamo qui per imparare insieme”».

Questa giovane docente studia almeno tanto quanto insegna, se non di più: «Per interesse personale ho cominciato ad approfondire l’outdoor education e analizzare gli effetti della Natura sui cosiddetti BES – bisogni educativi speciali –, definizione che non mi piace per niente. La mia idea è costruire percorsi ad hoc da proporre alle classi, compatibili con il programma e paralleli a esso, in modo che si possano sfruttare tutti gli elementi che la Natura mette a disposizione, anche in un contesto urbano».

outdoor education 2

La nostra chiacchierata finisce da dove è cominciata: dalle emozioni. «Quando siamo rientrati i ragazzi continuavano a chiederci di tornare lì», conclude Luigia. «In quei giorni tutte le emozioni sono venute fuori: lacrime, rabbia, frustrazione, gioia estrema, noia. Ci siamo messi in gioco tutti».

L’invito quindi è non sottovalutare ciò che viene da dentro, la scintilla da cui parte tutto, che dà vita alla missione dell’educatore e che alimenta la sete di imparare dell’allievo. La sfida è riaccendere questa scintilla in un modello in cui tutte le competenze che non vengono considerate utili ai fini lavorativi rischiano di passare in secondo piano.

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