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Prima di andare a vivere in una casa di accoglienza per senza dimora, prima di trasferirmi in una comunità terapeutica tra le Ande, lavoravo in uno studio legale a Milano. Ogni tanto ci ripenso. Mi ricordo i risvegli morbidi con cappuccino e cravatta, le telefonate serene con mamma i sabati pomeriggio, le domeniche sera passate a stirare le camicie della settimana. Gli aperitivi, lo stipendio rassicurante a fine mese, il suono delle scarpe eleganti sugli scalini dell’ufficio. E poi le vacanze un po’ dove volevo, le mance nei ristoranti il venerdì sera, il taxi per tornare a casa.
Una vita facile, sicura, apparentemente piena. Di quelle con dei binari chiari, lineari, con fermate obbligate di qualche minuto giusto il tempo per salutare i passeggeri e ripartire verso la prossima.
Ogni tanto ci ripenso e mi chiedo come mi sia saltato per la testa di lasciarla scappare. Quante preoccupazioni in meno, quante sicurezze in più, dove sarei ora. Sicuramente con meno capelli bianchi, una situazione gastrointestinale decisamente più stabile, una mamma in pace che non mi chiederebbe recapiti telefonici di mezza rubrica ad ogni spostamento. Sì, ogni tanto mi domando ancora perché. Specialmente quando di prima mattina qui manca l’acqua e fuori ci sono meno due gradi.
Poi però capitano giornate come questa e tutto torna perfettamente chiaro, cristallino, limpido. Poco importa che la manopola del rubinetto giri a vuoto, la pancia continui a borbottare strani mantra, il freddo polare. Capitano giornate così e subito mi sento stupido ad aver minimamente pensato che la felicità non stia tutta qui, in queste facce, in questi momenti.
Ho visto padri di famiglia sorridere e riabbracciare i loro figli piccoli dopo mesi lontani passati a curare un tarlo nella testa che li rende infelici. Ho visto gli occhi di un ragazzo disabile schiudersi di sorpresa quando chiamato a giocare la sua prima partita di calcio con i “normali”. Ho visto le guance di bambini senza papà diventare rosse di capriole tra le mie mani al grido di “Papi!”. Ho visto le palme incallite di chi vive in strada tremare di commozione ricevendo una coperta, di sera. Ho viste le occhiaie dei genitori sfarsi dal ridere guardando lo spettacolo di teatro dei loro figli alcolisti durante la festa della comunità. Ho visto le lacrime di chi sa di aver distrutto ogni cosa e vuole ricominciare da capo.
Ho visto la gentilezza delle vecchine senza nulla offrirti da mangiare le uniche patate rimaste in credenza, in silenzio. Ho visto bambini scalzi raccattare bottiglie di plastica in ogni dove per farne skate-board da riportare a casa. Ho visto anziani non vedenti ballare scalmanati al ritmo di Elvis Presley. Ho visto una signora senza gambe vivere col sorriso in una stanzetta senza finestre assieme ai tre figli. Ho visto un cinquantenne taciturno abituato a vivere in strada uscire dal suo silenzio esistenziale per raccontare barzellette di dubbio gusto. Ho visto il volto di una ragazzina vittima di violenze esultare di gioia appena finito di tessere la sua prima sciarpa per l’inverno. Ho visto la pace negli occhi di un ragazzo orfano mentre ringrazia Dio per ogni istante della sua esistenza.
Ho visto un sacco di cose, tante di più ne ho sentite, provate, da quando ho deciso di far diventare la mia vita un filo ingarbugliato d’incontri semplici. Molte negative, alcune difficili da ricordare. Sopra ogni cosa però ho scoperto il mare di braci calde che si nasconde sotto la superficie della normalità. Un prisma di colori aspri e vivaci che rende tutto perfettamente instabile e vivo.
Non so dove sarei se avessi continuato a seguire i binari lineari del tempo in cravatta. Di sicuro però non avrei scoperto cosa si nasconde sotto la crosta della pacifica quiete. Ed ora non sentirei tutti questi occhi attaccati ai miei, come un solo paio di pupille.
Ogni tanto ci ripenso, e mi rendo conto di aver fatto la scelta più giusta al mondo. Pace mamma.
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