Anna Rizzo: “Bisogna recuperare le relazioni, comunità significa stare con gli altri”
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«Sono nata in una famiglia di scienziati e artisti. Leggere, studiare e capire come era fatto il mondo, è stato il mio pane quotidiano». Anna Rizzo ci racconta la sua storia, ci parla di come la vita l’ha portata ad avvicinarsi allo studio degli altri, delle persone, delle relazioni, dei fattori che le determinano, di come si creano le comunità.
«Sono cresciuta in un ambiente stimolante e sono stata scout dai 7 ai 19 anni. Questa è stata la mia formazione primaria. Quella che ha dato le basi per la donna che sono oggi. Sapevo cosa era l’antropologia, l’etnografia e gli studi sulla tradizione popolare perché un caro amico d’infanzia di mio padre era il professor Antonio Buttitta, professore di antropologia culturale all’Università di Palermo».
Qual è stata la tua formazione e come ti sei avvicinata alle tematiche che studi oggi?
Ho sempre letto tanto, per educazione familiare ma anche perché fortemente stimolata dal confronto con i miei amici. Ho studiato antropologia culturale all’Università di Bologna e contestualmente ho inserito materie di archeologia per poter partecipare agli scavi archeologici, ma anche per avere una formazione più adeguata. Ho partecipato a due scuole di paleoantropologia, ho scelto di partecipare a scavi preistorici e paleontologici. È il periodo storico che amo di più, quello che mi ha dato un metodo. Il mio sogno è diventare una brava antropologa e imparare dal confronto.
Ho cominciato a occuparmi di aree interne e contesti rurali nel 2010, quando questi argomenti erano a latere dei convegni in cui partecipavano solo sociologi rurali e direttori dei parchi. Da dieci anni sono impegnata in una missione a Frattura di Scanno (AQ), piccolo paese sospeso tra le montagne dell’Abruzzo che negli ultimi anni ha conosciuto un’importante rinascita con una rigenerazione degli spazi portata avanti da una comunità emergente e competente. È un percorso enorme, un lavoro di equipe direi monumentale per come è stato pensato. Siamo una delle poche missioni italiane ad aver impostato il campo di ricerca secondo un profilo anglosassone.
Un elemento che ricorre nel tuo lavoro è il concetto di comunità, che nei borghi rimane fondante. Per chi vive nelle città l’unica strada per ritrovare la dimensione comunitaria è dunque tornare nei paesi?
La comunità è una superfamiglia, nei paesi la percepisci maggiormente per via della dimensione urbanistica orizzontale, dell’immediatezza con la strada, la piazza e cosa accade fuori, per la velocità con cui accadono gli scambi. Non è altro che la capacità che abbiamo di relazionarci e di andare incontro all’altro. Chiaramente vivi anche l’altro aspetto, che è quello castrante del controllo sociale e delle limitate possibilità di confronto che hai nei borghi. Non c’è bisogno di tornare nei paesi, da cui spesso molti fuggono o se ne sono andati per dignitosissime ragioni. Bisogna recuperare le relazioni con i vicini di casa, partire dal proprio condominio, chiedersi chi abita accanto, conoscere il proprio quartiere, salutare, mettersi a disposizione. La comunità non è altro che la nostra capacità di stare al mondo e di stare con gli altri. Quante possibilità vogliamo darci per essere una persona migliore? Questo lo realizzi ovunque vai.
In che modo si può vivere in queste realtà, le si può studiare o addirittura sostenere con qualche progetto di rivitalizzazione, rispettando l’anima del luogo e delle persone che lo abitano?
Ci dovrebbero essere dei finanziamenti per sostenere queste ricerche, partendo proprio da quelle archeologiche, che sono fondamentali e propedeutiche per partire dal recupero di una comunità. Non si può pensare che tutta l’esistenza di un paese sia condensi negli ultimi sessant’anni. Di progetti di rivitalizzazione ce ne sono diversi. Sono poco conosciuti e rimangono comunque progetti isolati e paludati. Fanno fatica a emergere, nonostante abbiano molte potenzialità e sono seguiti da bravi professionisti.
Chiaramente bisogna rispettare i paesi, la dimensione umana e anche spirituale del luogo. Ciò è reso possibile solo conoscendo il suo passato, anche quello più profondo, che ti permette di leggere le vocazioni territoriali nel lungo periodo e come questa comunità ha imparato a resistere a eventuali criticità. Prima di portare avanti qualsiasi progetto bisogna chiedere alla comunità se lo vuole, che ne pensa e come secondo loro si può procedere. Sono loro che scelgono e danno continuità. Non chi progetta per andarsene.
Molti paesi si spopoleranno. E non si può far molto. Nel senso che se le persone hanno scelto di andarsene probabilmente non ci sono le condizioni per rimanere. Nonostante siano posti magnifici e potenzialmente con una qualità della vita in termini di salute ottimali, magari mancano i servizi essenziali. E non vedo una spinta da parte dei sindaci per migliorare la qualità della vita in queste aree. Sostenere un frazione spopolata ha dei costi. Tra poco sarà così per i paesi più piccoli. Non vedo l’urgenza da parte degli amministratori nel pensare a progetti di conversione o di sostegno anche minimi in queste aree.
Oggi l’intervento umano sull’ambiente viene considerato quasi sempre deleterio e negativo. Nei tuoi lavori però hai osservato luoghi in cui l’antropizzazione ha saputo mescolarsi armonicamente con la Natura. Come appaiono questi luoghi? Potrebbero essere un esempio interessante per disegnare un nuovo modello?
Stiamo parlano di contesti sigillati. Sia geomorfologicamente, sia per viabilità la Valle del Sagittario unica per le scelte insediative dei paesi determinati dalla struttura orologica, le asperità del territorio e il clima. Sono aree fortemente legate alle risorse territoriali, con un economica agro-silvo-pastorale. Capsule del tempo. Architettonicamente sono paesi solidissimi, perché la saggezza e l’esperienza, che non è resilienza, li hanno indirizzati verse scelte coerenti con i materiali da usare, le piante da coltivare e in che modo organizzare gli spostamenti in quota, quindi le reti sociali.
Non si può pensare a un progetto unico per i paesi delle aree interne. L’Italia è una compagine diversissima di territori, che hanno una singolarità da cui non si può prescindere. Bisogna rispettare e accogliere le diverse declinazioni con cui si descrive una comunità e capire cosa fare insieme e se vogliono intraprendere un percorso di riattivazione. Non bisogna imporre progetti negoziati con rappresentanti che non rappresentano la comunità, né i più giovani, che spesso non vengono ascoltati. Un progetto di recupero della comunità mette al centro le persone che ci abitano e a loro si dedica. È un lavoro totalizzante, che non da spazio alla vita privata.
Dopo Frattura quali sono i tuoi prossimi programmi?
In questi giorni sono in Calabria a Civita (CS), sto seguendo il progetto Mea Memoria avviato dall’Associazione Gennaro Placco, a seguito della tragedia del Raganello del 2018. Un paese di tradizione arbreshe, fortemente radicato alla propria storia e tradizione che ha subito la recente catastrofe e risente fortemente del post tragedia. Sto lavorando sulla ricostruzione della comunità partendo da uno degli elementi fondativi per la tradizione locale, la ghitonìa, il vicinato. Un progetto coordinato da Stefania Emmanule, sociologa, e project manager. Stefania è l’ideatrice di BorgoSlow con cui collaboro da tre anni. Un progetto di rigenerazione dei borghi, dei paesi e delle aree interne. In Puglia invece seguo il progetto di ricerca PECUS Pescasseroli Candela Upland Survey, un’equipe composita di archeologi, ecologi, topografi, che ha come obiettivo lo studio archeologico, antropologico ed ecologico dell’itinerario della transumanza che partiva dalla Puglia fino all’Abruzzo. In Campania sto seguendo il progetto il Forno di Vincenzo, sto lavorando all’impatto sociale dell’assegnazione di un bene pubblico, al centro storico di Eboli a un ragazzo, Vincenzo, esperto panificatore, affetto da X fragile.
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