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Ogni conclusione di un percorso porta con sé la nostalgia dell’inizio e la sete di un nettare nuovo che sia balsamo per le nostre ferite. Nell’universo femminile la fine di una storia d’amore che porta ad una separazione consapevole dal compagno, spesso nella mediazione che svolgo in bosco con le mie compagne di cammino, si identifica nella sensazione di freddo che si ha passando in zone molto ombrose e dove i rovi tentano di aggrapparsi agli indumenti.. nella fatica del fango che aggrava il cammino, per poi giungere sul limitare dei tagli dove si scorgono le ceppe degli alberi tagliati, dove la luce ferisce gli occhi e lo spazio vuoto accorcia il respiro.
Arrivare alla decisione di interrompere un pezzo della propria vita è una strada sempre impervia, colma di riflessioni, lacrime, momenti di stagnazione e domande. È una strada che necessita di cura, perché anche la fine ha bisogno di essere curata, accompagnata. Quando un albero sta per morire avverte i suoi vicini perché della sua ultima linfa, possano mangiarne gli altri. Ecco separarsi da un cammino che abbiamo scelto porta con sé la responsabilità di usare la nostra linfa perché anche in quella fine ci sia vita e dunque un grazie a quella strada per averci nutrito, fatto crescere, per aver fatto in modo che trovassimo il modo di mettere ordine nello zaino che portiamo con noi per il viaggio.
Spesso parlando all’interno del bosco, ci rendiamo conto di quanto le parole spesso occupino troppo spazio nel nostro sentire e come l’immensità della natura ci spinga a specchiarci nelle nostre emozioni. Il bosco, in fase di pre e post separazione insegna che non esiste una logica del sopraffare, che le dipendenze sono pericolose per la gratuità dell’amore, che l’arbusto più esile può morire a causa della poca luce se egli stesso non ha la duttilità e la capacità di piegarsi e protendersi verso di essa, che l’albero immenso nodoso e forte può troncarsi per un piccolo fungo o essere bruciato da un fulmine.
Ecco in chi vive il post separazione spesso ricorre la ricerca dell’immagine del fiore bianco fra i rovi e del giovane albero che cerca luce, e spesso in questo meccanismo di identificazione viene associata la frase “vorrei che il mio compagno, la mia compagna avessero visto quel fiore bianco che mi sento dentro, vorrei che avessero visto che stavo cercando un modo per disegnarmi nuovamente…”. Questo bisogno di essere visti, la delusione perché l’altro non è stato parte di un nuovo inizio personale, è sicuramente uno degli aculei più dolorosi che la separazione lascia nel cuore, un leit motive che si ripete anche in molte delle storie successive, una ricerca dello sguardo dell’altro sulla nostra intimità.
Questo desiderio, questa ferita da amare, da nutrire come la terra fa con gli esseri viventi diventa un monito a specchiarsi in ciò che ci circonda, che tramite lo specchio fisico di un lago può farci capire quanto sia alta tale pretesa verso gli altri e quanto noi per primi siamo lo specchio e le radici del nostro evolvere nella nostra intimità, della nostra capacità di tendere alla luce, per poi trovare il nostro posto nella collettività.
Camminando in bosco il nostro sguardo spesso è catturato dall’albero tortuoso che esplode con la sua chioma verso la luce… quell’albero è lì giunto grazie a un piccolo seme caduto nella terra, che la natura ha coltivato e che con le sue forze proprie si è piegato si è modificato, ha accolto la vita animale e vegetale per arrivare vicino al cielo. Quell’albero ha subito da solo le sue modificazioni ma mai scordandosi che faceva parte di un tutto senza essere né migliore né peggiore, solo consapevole che il suo modificarsi sarebbe stato diverso dall’albero a lui più prossimo. La natura è madre, la vita è madre, anche nelle situazioni di dolore.
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